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C’è un fatto che accomuna l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, l’ex procuratore generale Giovanni Salvi e l’ex procuratore di Milano Francesco Greco. Un fatto che sicuramente è solo una coincidenza, ma che non può passare inosservato tanto è curioso. E il fatto è che tutti e tre, a vario titolo coinvolti nella vicenda dei verbali di Piero Amara sulla presunta (e inesistente) loggia Ungheria, hanno avuto problemi con i rispettivi telefoni. Quegli stessi telefoni che potevano fornire dettagli sulle comunicazioni che hanno caratterizzato l’ennesimo terremoto interno alla magistratura italiana.
Facciamo un passo indietro: lo scorso anno, quando Brescia ha sentito Salvi e Greco come persone informate sui fatti nel procedimento a carico di Davigo - ora a processo a Brescia per rivelazione di segreto - i pm chiedono di controllare i loro cellulari per appurare il contenuto delle comunicazioni sul caso Amara. Ma prima Greco e poi Salvi hanno dichiarato di aver perso il telefonino. Sul punto, sentiti come testi in aula, i due ex magistrati hanno puntato il dito contro la stampa, che li avrebbe trattati come furbetti: «Ci hanno definito (me e Salvi, ndr) due malavitosi che hanno fatto sparire i telefoni…», aveva dichiarato Greco, mentre l’ex pg della Cassazione ha espresso indignazione per il fatto che «sia stata messa in dubbio la mia onestà e la mia sia stata presentata come una perdita dolosa».
Il caso era già singolare così, ma martedì, nel corso della sua lunga deposizione, anche Davigo ha dichiarato di non essere più in possesso del cellulare sul quale c’erano i messaggi scambiati con Paolo Storari, che gli consegnò i fogli word con le dichiarazioni di Amara. «Il telefono si è rotto ed io l’ho cambiato», in quanto avrebbe «preso umidità», ha dichiarato l’ex pm di Mani Pulite, tanto da far sorridere Fabio Repici, avvocato dell’ex consigliere del Csm Sebastiano Ardita, parte civile al processo. «Quindi è capitato pure a lei?», ha chiesto il legale, domanda alla quale Davigo ha risposto con tranquillità: «Sì, però non c’erano messaggi che non si potessero ostentare». Oggi no, certamente, dato che il telefono non esiste più. «Se l'avessi saputo (dell’indagine, ndr) lo avrei conservato gelosamente», ha aggiunto l’ex magistrato, che invece lo avrebbe «rivenduto» ad un centro.
«Ha rivenduto il telefono ai cinesi?», ha chiesto dunque sbigottito il presidente del collegio Roberto Spanò. «È un concessionario di Apple - ha spiegato Davigo -, l'ho fatto riparare, ma mi hanno detto “guardi, se lei ne compra uno nuovo facciamo questo sconto e le compriamo quello vecchio”». Una permuta, insomma. Ma Davigo non ha chiesto di fare alcun backup dei messaggi. «Uno come lei…», si è chiesto Spanò. Il backup in realtà c’è, «ma solo delle cose importanti», dunque non dei messaggi scambiati con chi gli aveva annunciato una nuova possibile catastrofe all’interno della magistratura, notizia che, a suo dire, lo aveva sconvolto tanto era grave. E non esiste più - o meglio, non esiste più il contenuto - nemmeno la pen drive sulla quale Storari gli consegnò quei fogli word, che «probabilmente è stata riutilizzata».
Ma non solo. A non essere più attiva, con ogni probabilità, è anche la mail dalla quale inviò al suo indirizzo di posta del ministero della Giustizia - «che non ho più, ovviamente» - i file con le dichiarazioni di Amara. «Quindi non c'è un modo per avere un documento che fissi la data» di consegna dei verbali, ha fatto notare Repici, secondo cui Davigo sarebbe venuto a conoscenza delle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno di Eni molto prima di aprile 2020. «C'è stato uno smarrimento di prove per sua legittima volontà», ha contestato l’avvocato.