Era il tecnico fuori da tutto. Il pm anomalo, garantista, coltissimo ma anche alieno alla politica. Mentre si avvicina il giro di boa del quinquennio meloniano, Carlo Nordio si distingue invece sempre più come figura chiave dell’Esecutivo. Doveva essere il vezzo, il piccolo sfizio che Giorgia Meloni si era voluta concedere prima con la candidatura alla Camera (troppo spesso si dimentica che l’attuale guardasigilli è stato ed è innanzitutto un cittadino candidato da Fratelli d’Italia ed eletto a Montecitorio) e poi con la nomina a via Arenula.

Certo, Nordio ministro della Giustizia è stata una scelta dettata anche dall’urgenza di arginare l’ambizione berlusconiana. Ma oggi l’ex procuratore aggiunto di Venezia è molto più dell’alieno prestato dalla toga al governo: è una figura centrale nell’Esecutivo. L’uomo dell’unica riforma che tiene davvero: la separazione delle carriere. Il mediatore convesso che ha incassato, per la verità, più di un deragliamento populista, dai reati inventati o snaturati – com’è successo coi rave party o con i decreti Caivano e Sicurezza – alla desolante indifferenza sul carcere, condannato, dall’ultrarigorismo di FdI e Lega e da qualche compromesso di troppo degli azzurri, a un abisso di disperazione, suicidi, sovraffollamento e disumanità. Ma servirebbero fiumi di parole per ricondurre questa linea crudele del centrodestra italiano alle categorie immutabili della realpolitik.

Non è la materia del giorno. Lo è invece la centralità di via Arenula nell’arcipelago del governo. Confermata dalla vastissima intervista che il guardasigilli ha voluto rilasciare al direttore del Foglio Claudio Cerasa per il numero di ieri. Ribadita dal defilarsi del premierato, mentre l’autonomia viene svuotata dalla Corte costituzionale con la decisione dello scorso 14 novembre, senza che a nessuno, a cominciare dall’autore Roberto Calderoli, convenga davvero riconoscere quello svuotamento.

Ma non si tratta solo della separazione delle carriere, sulle cui prospettive e significati Nordio, nell’intervista al Foglio, si è opportunamente dilungato. Si tratta anche della riforma multipolare delle intercettazioni, disseminata cioè in tante leggi e vettori normativi grandi e piccoli, dal divieto di captare le conversazioni dell’avvocato, inserito nel ddl penale di Nordio in vigore da fine agosto, al limite dei 45 giorni imposto alle Procure dalla legge Zanettin, alla quale il ministro pure ha dedicato, nella conversazione con Cerasa, una sorta di arringa. E ancora, si tratta dell’introduzione di una verifica psicologica sui magistrati, affidata ai futuri test.

Ecco: ma insomma Carlo Nordio è il crocevia di tutto quanto, nella politica di Meloni, non rientri nelle altre due grandi direttrici della politica estera e dell’economia, solo per “abbandono” dei contendenti? O c’è qualcosa di più? Intanto va notato un lento ma inesorabile affinamento della convergenza, sulla giustizia. Forza Italia ha incassato lo sprint sulle carriere, ma ha accuratamente (purtroppo) messo da parte gli ardori estivi sul carcere, e tutto in nome di una coesione che non dev’essere macchiata da nulla, neppure dallo Ius scholae.

Fratelli d’Italia avrebbe voluto tenere un po’ più da parte i limiti ai pm sulle intercettazioni, tanto da aver provato, ancora nell’ultimo vertice a via Arenula, a dirottare su un binario, se non morto, certamente lentissimo il limite dei 45 giorni, col pretesto dell’eccezione per i processi da codice rosso, ma poi ha dovuto riconoscere che non poteva imporre a Forza Italia, a Nordio e alla stessa Lega una linea così solipsista.

La Lega ha ottenuto l’intransigenza sul carcere e, soprattutto, la stretta, ai limiti dell’incostituzionale, sulle madri detenute, ma ha dovuto accettare, solo per fare l’esempio più recente, il congelamento della proposta sulle sanzioni ai magistrati che prima parlano in pubblico e poi giudicano sulla stessa materia, sanzioni escluse dal decreto Giustizia di venerdì scorso.

Tutti rinunciano a qualcosa, sulla giustizia, nel centrodestra, pur di tenere la barra dritta, assai più di quanto avvenga sul canone Rai o sull’autonomia differenziata. E un motivo c’è. Un senso, per questo sforzo di coesione, c’è. Una spiegazione della centralità che – nonostante le rinunce sul carcere e le concessioni al panpenalismo – Nordio conserva, c’è. Ed è la consapevolezza, che nel centrodestra si è radicata, dello stato di soggezione ancora sofferto dalla politica nei confronti della magistratura.

Non si parla molto dell’indagine su Giovanni Toti e della censura, ancora non còlta in tutta la sua gravità, imposta da pm e giudici genovesi al tentativo dei politici di procurarsi, nel rispetto delle regole, sostegni economici privati.

Ma come ha scritto Alessandro Campi sul Messaggero di ieri, nella maggioranza e non solo si fa strada la convinzione che un ritorno al finanziamento pubblico sia urgente. Ed è proprio lì, nella necessità della politica di affrancarsi da quel pregiudizio morale di cui la magistratura è alfiere, che si spiega l’unità della centrodestra di governo sulla giustizia. La vittoria di Marco Bucci alle Regionali in Liguria è stata una conquista identitaria. È l’emblema di una battaglia per la dignità e l’autonomia della politica dal potere giudiziario che l’attuale maggioranza riconosce, implicitamente, come decisiva.

Ed ecco perché a un ex magistrato come Nordio, conoscitore profondo della contraddizione aperta da Mani pulite (tanto da essere stato fra i pochi colleghi a contestare i pm del Pool) sono consegnate le chiavi delle riforme. Non nel senso del potere di decidere per tutti, certo. Quello Meloni lo tiene stretto, e lo condivide con altri, a cominciare da Alfredo Mantovano, prima che col proprio ministro della Giustizia. Ma quel ministro che sta a via Arenula è il solo che conosca la formula magica per spezzare le catene con cui la magistratura tiene sotto scacco la politica da quasi 33 anni. E pur di spezzarle, quelle catene, tutti, nella maggioranza, sono disposti a sacrificare un po’ di loro stessi.