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Conferenza stampa in Procura su infiltrazioni criminali nelle tifoserie ultras di Milan e Inter , presso il tribunale di Milano
Tra i soggetti coinvolti nella maxi inchiesta della Procura di Milano sui capi ultrà delle curve del Milan e dell’Inter ci sono anche i fratelli Aldo e Mauro Russo: il primo cognato di Paolo Maldini, il secondo socio in affari di quest’ultimo e di Christian Vieri. Mauro Russo, in particolare, avrebbe corrotto, secondo i pm, il consigliere regionale della Lombardia Manfredi Palmeri per ottenere la gestione dei parcheggi all’esterno dello stadio Meazza, una circostanza che ha spinto ieri il sindaco di Milano Beppe Sala a richiedere l’accesso agli atti dell’indagine. «Noi di fatto stiamo affidando qualcosa che è nostro», lo stadio, «a qualcun altro: dobbiamo sapere se questo qualcun altro è in condizione di gestirlo», ha sottolineato il primo cittadino. «Molto male quello che è successo, molto bene però quello che sta facendo la Procura», ha poi aggiunto Sala, secondo il quale «è chiaro come questa sia una situazione che va raddrizzata rapidamente, perché era nell’aria che c’era qualcosa che non andava. Queste indagini hanno portato a scoprire una serie di questioni che sono ovviamente un problema per la nostra città e per il nostro Paese».
In attesa degli interrogatori di garanzia, continua però a far discutere la decisione della Procura di avviare un “procedimento di prevenzione” nei confronti delle due squadre di calcio. Le norme sul punto sono quelle previste dal codice antimafia, e impongono, al destinatario del procedimento di prevenzione (il “proposto”), l’inversione dell’onere della prova, e quindi di provare l’assenza non di “complicità attive”, ma anche di semplici “condizionamenti” subiti dall’associazione a delinquere. Nel caso in questione, di aver preso le distanze dalle condotte tenute dalle tifoserie.
Va ricordato che il procedimento di prevenzione comporta inevitabilmente dei danni “collaterali”. Le statistiche raccontano come ben il 90 per cento delle aziende finite in mano agli amministratori giudiziari falliscono dopo poco. Un caso di scuola è offerto da quanto accaduto alla famiglia Cavallotti, imprenditori siciliani la cui azienda, leader nel settore della metanizzazione, nel 1999 venne sequestrata nell’ambito di una inchiesta per associazione di stampo mafioso.
Nel 2011, pur essendo stato definitivamente archiviato il procedimento penale, la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo - allora presieduta da Silvana Saguto, poi radiata dalla magistratura e condannata ad 8 anni di prigione proprio per l’illecita modalità con cui gestiva i beni - tramutò il sequestro in confisca. Per motivare la decisione vennero utilizzate le stesse fonti di prova che i giudici penali avevano ritenuto inidonee per sostenere, nel processo vero e proprio, l’accusa di mafia.
L’azienda, nel frattempo gestita dagli amministratori giudiziari, era però fallita, mandando così la famiglia Cavallotti, risultata in realtà, al termine della vicenda giudiziaria, vittima delle estorsioni dei clan, sul lastrico. Nel 2016 i Cavallotti decisero però di presentare ricorso alla Cedu, la cui decisone è attesa nei prossimi mesi. Fra i punti all’attenzione dei giudici di Strasburgo vi è proprio l’inversione dell’onere della prova relativa all’origine legittima dei beni. Quest’ultimi, va ricordato, nel frattempo erano stati vandalizzati, in quanto l’Agenzia non aveva vigilato.
«L’uso di presunzioni e di meri sospetti ha soppiantato la ricerca della prova», ricorda Cavallotti, aggiungendo che «occorre impedire che una persona assolta per gli stessi fatti si veda portare via tutto il patrimonio come è successo alla mia famiglia. La lotta alla mafia non deve trasformarsi in una inaccettabile persecuzione di innocenti. Mi rendo conto», continua l’imprenditore, «che la revisione del sistema delle misure di prevenzione non è nel programma dell’attuale coalizione di governo. Ma non ci può essere lotta alla mafia senza il rispetto dei diritti e delle garanzie costituzionali».
Recentemente il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva invece affermato che la normativa italiana «è un unicum nel panorama mondiale: siamo richiesti da Paesi stranieri, anche europei per vedere come funziona il nostro sistema».
Il procedimento di prevenzione nei confronti delle squadre ha comunque immediatamente acceso il dibattito nel foro milanese. «Va valutato con molta attenzione perché potrebbe non essere la soluzione adeguata alla loro tipicità», ha precisato l’avvocata Daniela Muradore. «La materia è delicata e occorre un vaglio strettissimo», ha aggiunto il collega Andrea Del Corno. Di «esperienza comunque positiva», ha invece parlato l’avvocato Enrico Giarda.