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Quella di Alex Cotoia (Pompa all’epoca dei fatti) non poteva essere legittima difesa «tenuto conto della sede dei colpi, almeno quindici coltellate in regione dorsale, della reiterazione degli stessi, trentaquattro, e del numero di armi impiegate, sei coltelli, che depongono univocamente nel senso di una condotta francamente aggressiva»: lo hanno sostenuto i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Torino nelle motivazioni della sentenza che il 13 dicembre scorso ha condannato a sei anni, due mesi e due giorni per omicidio volontario, il ventiduenne di Collegno (Torino) che nel 2020 uccise a coltellate il padre nel corso dell’ennesima lite contro la madre.
Pompa, che ora porta il cognome della madre, in primo grado era stato assolto. «Presupposti essenziali della legittima difesa, infatti, sono - spiegano i giudici - un’aggressione ingiusta e una reazione legittima e mentre la prima deve concretarsi nel pericolo attuale di un’offesa, la seconda deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo e alla proporzione tra difesa e offesa, non potendo, certamente, dirsi sufficiente al suo riconoscimento un pericolo eventuale, futuro, meramente probabile o temuto».
Inoltre la dinamica degli accadimenti rende «del tutto evidente che l’offesa arrecata» al genitore «non possa dirsi in alcun modo inferiore, uguale o tollerabilmente superiore al male subito o minacciato». Nelle motivazioni si legge anche che le dichiarazioni rese durante il processo da Loris Cotoia, fratello di Alex Cotoia, hanno «numerose e rilevantissimi contraddizioni» rispetto a quanto dichiarato da lui stesso «nell’immediatezza dei fatti».
Le dichiarazioni del fratello, che con la madre era presente in casa al momento del delitto, sarebbero state «lacunose e frammentarie» nella sua deposizione mentre nell’immediatezza del fatto il fratello aveva fornito un «fluido e lineare racconto», secondo i giudici. I giudici, oltre a condannare Alex, hanno infatti disposto la trasmissione degli atti alla procura di Torino per valutare le deposizioni di Loris Cotoia e della madre Maria Cotoia.
I giudici si sono soffermati anche sul messaggio impaurito inviato allo zio Michele Pompa alle 22.26 della sera del delitto, dicendo che «francamente sembra davvero poco coerente con la situazione descritta, con il terrore vissuto, visto l’enorme pericolo che il padre rappresentava» il fatto che allo zio sia stato mandato un messaggio e non sia stata fatta una chiamata a lui o ai carabinieri. I giudici sostengono che sia Loris che la madre avrebbero compiuto «enfatizzazioni» «dell’atteggiamento violento» del padre «prima e durante quella sera» anche «attraverso l’aggiunta di particolari sino a quel momento inediti».
Tale vicenda giudiziaria comunque sembra non doversi chiudere qui. Per il momento l’avvocato di Alex Cotoia, Claudio Strata, si limita a dire al Dubbio: «Dovrò leggere con attenzioni le motivazioni, prima di poterle commentare» ma l’«epilogo naturale sarà l’approdo in Cassazione» per tornare all’assoluzione del primo grado. In precedenza era stata investita anche la Corte costituzionale della vicenda. Infatti ad ottobre dell’anno scorso era stata depositata (redattore Francesco Viganò) una sentenza molto importante per cui anche nei processi per omicidio commesso nei confronti di una persona familiare o convivente il giudice deve avere la possibilità di valutare caso per caso se diminuire la pena in presenza della circostanza attenuante della provocazione e delle attenuanti generiche.
La Corte, riunendo tre casi in cui era stata sollevata la medesima questione di costituzionalità, aveva dichiarato incostituzionale l’ultimo comma dell’art. 577 cp, introdotto dalla legge n. 69 del 2019 (cosiddetto “codice rosso”). La norma vietava eccezionalmente al giudice di dichiarare prevalenti le due attenuanti rispetto all’aggravante dei rapporti familiari tra autore e vittima dell’omicidio. Tra i tre casi presi in esame, c’era proprio quello di Alex Pompa. Assolto in primo grado, la Corte di appello invece non ritenne che l’imputato avesse agito in legittima difesa, ma gli riconobbe varie attenuanti, tra cui la provocazione e le attenuanti generiche, rimettendo il caso alla Consulta. Quest’ultima aveva ritenuto, in particolare, che il divieto posto dalla norma censurata determini una violazione dei principi di parità di trattamento di fronte alla legge, di proporzionalità e individualizzazione della pena sanciti dagli articoli 3 e 27 della Costituzione.
La Corte di Assise di Appello di Torino alla luce della sentenza era chiamata solo a fissare l’udienza e quindi, avendo già preannunciato la volontà di riconoscere le attenuanti prevalenti sulle aggravanti del rapporto di parentela, a motivare il dispositivo condannando comunque il ragazzo ma alla pena più bassa – sei anni due mesi e venti giorni, di cui un anno e mezzo già scontato ai domiciliari - rispetto a quella che era in astratto ipotizzabile. Anche il pubblico ministero si era detto favorevole a sollevare il dubbio. Comunque aveva chiesto 14 anni, la pena minima possibile per un omicidio volontario, considerata altresì la semi infermità mentale del ragazzo accertata da una perizia psichiatrica.