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I tre poliziotti accusati di avere assassinato il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Dyarbakir in Turchia, il collega Tahir Elci, il 28 novembre 2015, sono stati assolti. Una decisione quasi scontata: quando le indagini del PM vengono svolte non “per raggiungere la verità ma per nasconderla” (parole pronunciate in aula da uno dei fratelli della vittima), l’esito non può essere diverso da questo. Ironia o scherno, il PM in udienza, ribadendo la sua richiesta già formulata giorni fa per scritto, di assoluzione per i tre imputati, ha osato invocare la presunzione di innocenza per non essere stato possibile individuare quale dei tre imputati abbia sparato il colpo fatale.
Davanti ad una grande aula strapiena di avvocati provenienti da tutto il paese e di tanti osservatori internazionali venuti da tutta Europa, la corte si è attenuta alle richieste del PM. La stessa corte che aveva rigettato tutte le richieste di prove formulate dalle parti civili: famiglia della vittima, ordine di Diyarbakir e ordine nazionale. Gli avvocati di parte civile si sono battuti fino allo stremo dimostrando come le indagini siano state consapevolmente omesse fin dalle prime battute rifiutando il sopralluogo sul luogo del delitto e la raccolta dei bossoli e dei proiettili per confrontarli con le pistole in mano ai molti poliziotti presenti.
Eppure - questo è certo - solo la polizia sparò in quell’occasione e in quel luogo. Gli avvocati di Diyarbakir hanno riversato in atti anche una perizia tecnica effettuata dalla miglior agenzia londinese nel ramo, che aveva ricostruito la scena e la traiettoria degli spari partendo dai video effettuati al momento, da cui però, guarda caso, mancavano gli istanti dell’uccisione.
La corte, in un processo durato quasi cinque anni, ha rifiutato anche questa perizia, così come ha rigettato anche la possibilità di fare ricostruire le parti mancanti dei video: operazione forse possibile inviandoli alle case produttrici delle varie videocamere.
Il rifiuto della corte ha investito anche tutti le prove testimoniali proposte: sia quelle dei presenti al fatto, che quelle riguardanti la natura dell’omicidio: “un omicidio indubbiamente politico”, come ebbe a dire il Presidente del Consiglio dell’epoca Davutoglu nella immediatezza del fatto: cosa intendeva dire? Che cosa sapeva di più? Nemmeno questi si è voluto sentire.
La difesa dei parenti della vittima ha proposto anche una soluzione di fronte a questa terra bruciata di prove omesse o negate: tutti i poliziotti presenti non potevano ignorare che sparare 47 proiettili in 16 secondi poteva attingere qualcuno, quanto meno a titolo di colpa cosciente o dolo eventuale. Ma nemmeno questo ha spostato una decisione già presa altrove e più in alto. L’ultimo intervento delle parti civili ha espresso con chiarezza l’opinione che “questa corte è totalmente inattendibile” e dunque avvocati e pubblico se ne sarebbero andati senza nemmeno attendere la sentenza. E così è stato: nella grande aula sono rimasti solo gli osservatori internazionali che hanno così potuto osservare come si riduce la giustizia asservita ad un governo autocratico.