In Italia l’azione penale è obbligatoria. E resterà tale, anche dopo la separazione delle carriere. Se ritengono ve ne sia motivo, i pm hanno sempre il dovere di procedere e di invocare la condanna di un imputato. Di certo gli inquirenti italiani non guardano in faccia a nessuno. Neanche al cosiddetto interesse nazionale. Al punto da avviare un’indagine e sollecitare un rinvio a giudizio anche quando il sospettato è una compagnia “strategica” e le ipotesi d’accusa non sono esattamente di granito, tanto da non reggere alla prova del processo.

È andata così con l’Eni: una ricerca ostinata della condanna per i presunti illeciti commessi dai vertici del colosso petrolifero per ottenere una super- commessa in Nigeria. Ricerca tanto ostinata che, secondo quanto ipotizzato nel successivo processo che vede tuttora sotto accusa gli stessi pm milanesi, questi ultimi avrebbero deliberatamente occultato prove a favore della difesa. Ciò che conta, certo, è l’inflessibilità della magistratura italiana nel perseguire i reati, per carità. In Francia o in altri Paesi – e non solo lì dove la magistratura requirente è assoggettata all’Esecutivo – col cavolo che un pubblico ministero si mette sulle tracce di reati il cui accertamento danneggerebbe gli interessi geoeconomici del proprio Paese.

Pensate: è cosi inflessibile, la magistratura italiana, soprattutto nel perseguire la corruzione, da aver suscitato nell’opinione pubblica la percezione che da noi il malaffare alligni ovunque, costituisca un male pervasivo, subdolo, aggressivo e onnipresente. E quando Transparency international conduce le proprie “verifiche” sul tasso di corruzione nei singoli Paesi – verifiche basate sulla percezione, cioè su sondaggi, anziché su parametri un minimo più attendibili – guarda caso l’Italia schizza puntualmente ai vertici ( in negativo) tra gli Stati del mondo progredito. Anzi se la batte con il Ruanda.

Ora, il fatto che i pm, da Roma a Milano passando per le implacabili Procure calabresi, non facciano sconti e diano la caccia anche alle nostre grandi compagnie, portatrici di interessi strategici per il Belpaese, è sì un caso limite del cosiddetto “controllo di legalità”, ma è comunque commendevole. Ciononostante, che l’Italia debba poi pagare questa tenacia, questa certamente apprezzabile operosità e intransigenza del proprio apparato penale con uno score terzomondista nei “ranking percettivi” delle agenzie internazionali – che magari, come Transparency, hanno sede nella guarda caso irreprensibile Berlino – è, diciamolo, un po’ una beffa. Siamo severi, implacabili ma anche screditati: forse è troppo. In realtà nel gergo un popolare si dice in un altro modo. Si dice cornuti e mazziati. Ecco, se quando si tratta di misurare la corruzione, riuscissimo a evitare – come ora cerca di fare il ministro Carlo Nordio – di farci pure “mazziare”, sarebbe già qualcosa.