Sarà un’offensiva? Può darsi. Di sicuro, sulla giustizia Giorgia Meloni ha cambiato registro. E con lei, l’intera maggioranza. Ma dove può arrivare la “minaccia” del centrodestra nei confronti della magistratura? Prima di rispondere, bisogna prefigurare uno scenario: la difficilissima sfida autunnale delle elezioni in Liguria.

L’alleanza di governo le affronterà con Giovanni Toti in attesa di giudizio: prima le Regionali, poi il dibattimento. Non è il viatico ideale. Sebbene la vicenda dell’ormai ex governatore sia un illuminante paradigma delle forzature che la magistratura è in grado di operare, e continua a operare, rispetto alla separazione dei poteri. C’è però poco tempo per trasferire simili convinzioni agli elettori. Sono analisi che tutti i partiti del centrodestra condividono (e che peraltro su questo giornale hanno trovato spazio anche di recente, per esempio con l’intervento firmato la settimana scorsa da Alessandro Barbano), ma sono anche analisi troppo sofisticate per essere oggetto di campagna elettorale.
Non che perdere Genova costituirebbe il preannuncio di una crisi di governo. Ma certo non è neppure la polizza per un autunno tranquillo (ieri Repubblica lo ha immaginato assai “caldo”, ma per i magistrati). In realtà a Palazzo Chigi e a via Arenula si comincia a mettere a fuoco un disegno più complessivo: portare la magistratura fuori dal conflitto politico, sottrarle il peso di potere antagonista, e ridimensionare, quindi, la valenza dell’Anm nel dibattito pubblico.

Insomma: ristrutturare la separazione dei poteri in una forma più coerente con la Costituzione, e certamente rovesciata rispetto allo schema del ventennio berlusconiano, che non a caso Giorgia Meloni, nell’autodifesa sul presunto controllo ai danni di sua sorella Arianna, ha per la prima volta evocato come una deriva da non ripetere. Come ci si arriva? Con la separazione delle carriere, of course. Perché secondo la visione dei più attenti, nel governo, alle dinamiche della magistratura, a cominciare da Carlo Nordio, il “divorzio” giudici-pm consentirebbe di sopprimere per sempre l’egemonia politico-sindacale dei “requirenti” rispetto ai colleghi “giudicanti”.

Nella riforma proposta dal guardasigilli, e affidata ora alla commissione Affari costituzionali di Montecitorio, il punto chiave non è nei diversi percorsi concorsuali per l’accesso alla carriera togata, ma nella scissione dell’attuale Csm in due Consigli superiori, uno per i giudici, appunto, e uno per i pm. È il vero cuore del ddl costituzionale: con i pubblici ministeri “confinati” in un “organo di autogoverno” tutto loro, i giudici saranno finalmente liberi dall’influenza, dal peso – e secondo alcuni, dalle pressioni implicite nell’esercizio stesso della funzione – delle Procure.

Gli uffici inquirenti, da Mani pulite in poi, hanno sempre costituito l’epicentro del potere politico, nella magistratura: la gran parte dei presidenti Anm viene dal pubblico ministero (l’attuale vertice Giuseppe Santalucia, giudice di Cassazione, è una delle rare eccezioni). Seppur minoritari nell’attuale Csm unico, i “requirenti” riescono a condizionare le scelte sulle nomine e l’indirizzo generale del Consiglio perché dell’Anm hanno quasi sempre guidato innanzitutto le correnti.
Ma se i pm se ne vanno altrove, se i giudici staranno per conto loro, e voteranno per conto loro nomine, promozioni, bocciature e pareri sulle riforme, l’influenza delle Procure è destinata inevitabilmente ad affievolirsi. Nelle correnti e, per conseguenza, nel Csm dei “giudicanti”.
Ecco la chiave che Nordio e Meloni hanno individuato per smontare il potere politico della magistratura. Il disegno di via Arenula e Palazzo Chigi si completa con un corollario: una volta “smilitarizzata” l’Anm, svuotata dal peso ingombrante, pervasivo e politicizzato delle Procure, tenderà a diradarsi anche la politicizzazione dei magistrati generalmente intesi.

La “pancia” dell’ordine giudiziario – composta in maggioranza dai giudici civili, con giudici penali e pubblici ministeri in netta minoranza – potrebbe mutuare, dal nuovo assetto politico-ordinamentale delle due magistrature, un’idea diversa, un approccio meno “politicamente partecipe”, più laico e tecnicamente orientato nell’esercizio della funzione.
Certo, i pubblici ministeri resterebbero come sono, e anzi un organo di autogoverno, un Csm tutto per loro rischia di costituire un’anomalia di sistema, con inquietanti rischi di deriva delle Procure verso un potere superpoliziesco sganciato da ogni controllo, fatta eccezione per il presidente della Repubblica. Ma è un rischio che Nordio innanzitutto e ora anche Palazzo Chigi sono ben lieti di correre. In gioco c’è l’opportunità di allontanare quel 70 per cento di magistrati che di processo penale neppure si occupano da una concezione militante della giustizia, e dunque dalla stessa Anm.

Un’idea sofisticata, che ovviamente non porterebbe frutti nel corso dell’attuale legislatura, ma la cui “consapevolezza larvale” potrebbe già cominciare a insinuarsi, nell’ordine togato. Con effetti inimmaginabili in termini di riequilibrio tra potere politico e potere giudiziario.