Nessuna nuova prova e nessun “complotto” ai danni degli imputati. Sono queste le ragioni principali che hanno spinto la Corte d’Appello di Brescia a negare la riapertura del processo sulla strage di Erba.

Nelle motivazioni della sentenza con la quale lo scorso 10 luglio i giudici hanno respinto le istanze di revisione presentate dai legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi, e dall’allora pg di Milano Cuno Tarfusser (ormai in pensione per sopraggiunti limiti di età), i giudici concludono che “l’istanza è manifestamente inammissibile, esaurendosi nella ripetizione, alla luce delle nuove acquisizioni (che, come si è visto, tali non sono) e nella prospettiva della falsità della prova, di doglianze già sviluppate nei precedenti gradi di giudizio e in sede d’incidente di esecuzione”. E nemmeno ci fu una sorta di “complotto” ai danni dei coniugi come, secondo questa lettura, emergerebbe dalle richieste di revisione.

Difesa e pg chiedevano di riaprire il caso chiuso con la condanna definitiva all’ergastolo per i due coniugi, accusati per il massacro dell’11 dicembre 2006 nella corte di via Diaz, in cui erano morti Raffaella Castagna, sua madre Paola Galli, suo figlio Youssef di due anni e la vicina di casa Valeria Cherubini. I due sono anche accusati del tentato omicidio di Mario Frigerio, che si salvò grazie a una malformazione della carotide, poi deceduto nel 2014. La conseguenza della bocciatura delle istanze, che ha accolto la richiesta della Procura Generale, è la conferma del carcere a vita per Olindo e Rosa, deciso in via definitiva dalla Cassazione il 3 maggio 2011. L’avvocato Fabio Schembri, legale dei coniugi, aveva annunciato l’intenzione di presentare ricorso in Cassazione.

“La falsità delle prove (rectius: del loro iter formativo), così come i presunti fatti-reato che avrebbero inquinato il processo, non discenderebbe da nuove prove di segno opposto a quelle considerate in sede di cognizione ma da una sorta di complotto ai danni di Romano e della Bazzi, che avrebbe condotto gli inquirenti a costruire a tavolino la traccia ematica rinvenuta sul battitacco della Seat Arosa e a insufflare in modo surrettizio (occultando di averlo sentito, cancellando le relative intercettazioni e falsificando i verbali dei colloqui registrati) Mario Frigerio, per poi costringere gli odierni ricorrenti a confessare, anche in questo caso sopprimendo conversazioni oggetto d'intercettazione che avrebbero potuto dimostrarne l'innocenza”, scrivono ora i giudici di Brescia, argomentando il no alle richieste di difesa e pg, secondo i quali il carabiniere Gallorini avrebbe “suggerito” il nome di Olindo al vicino di casa quando lo ascoltò dopo il delitto.

La testimonianza che conta di Mario Frigerio, considerata uno dei pilastri della sentenza di condanna di Olindo e Rosa, è quella da lui resa nel dibattimento, scrivono i giudici. “Il dato dirimente con cui la difesa non si confronta è che la prova che ha concorso a formare il giudicato di condanna non è costituita dalla deposizione o dall'annotazione di Gallorini ma dalla testimonianza resa in dibattimento da Frigerio” è l'argomento della Corte d'Appello bresciana, secondo la quale le dichiarazioni dell'uomo non furono annebbiate da un'amnesia anterograda, cioè la difficoltà a ricordare eventi successivi a un evento traumatico. “Il tema sulla capacità a testimoniare di Frigerio - tagliano corto - è stato ampiamente sviscerato nei precedenti di gradi di giudizio” e quindi non può costituire una prova nuova.

Un passaggio della sentenza riguarda anche il ruolo di Cuno Tarfusser, finito sotto procedimento disciplinare e punito con la “censura” da parte della sezione disciplinare del Csm con l’accusa di aver mancato ai «doveri di imparzialità e correttezza» per aver depositato di propria iniziativa l’istanza «in palese violazione del documento organizzativo dell’ufficio» che assegna questa facoltà soltanto al pg presso la Corte d’Appello o al suo vice, l’avvocato generale. 

“La richiesta di Tarfusser, prima ancora che carente sotto il profilo della novità della prova, è inammissibile per difetto di legittimazione del proponente”, argomenta la Corte. Dal momento che l’ex toga è “sostituto procuratore generale privo di delega relativamente alle revisioni”. Per quanto riguarda la richiesta della difesa, essa è “inammissibile sotto il duplice profilo della mancanza di novità e della inidoneità a ribaltare il giudizio di penale responsabilità delle prove di cui è chiesta l’ammissione. La diversa valutazione tecnica-scientifica di elementi fattuali già noti può costituire prova nuova, solo se fondata su nuove acquisizioni scientifiche”.