Sul fine vita la Corte costituzionale non “corregge” se stessa. Ma bussa ancora alla porta della politica sorda, e invita tutti a rispettare le regole di accesso al suicidio assistito stabilite cinque anni fa. Regole che restano invariate, spiega la Corte, ma reinterpretate per ciò che riguarda il criterio dei “trattamenti di sostegno vitale”. Ovvero uno dei quattro requisiti sanciti nel 2019 con la sentenza 242 sul caso Cappato Dj/Fabo, il nodo sul quale la Corte era chiamata nuovamente a pronunciarsi per estenderne o restringerne l’interpretazione. Oppure, per superarlo.

Con la sentenza 135 depositata oggi, i giudici delle leggi decidono di conservarlo. Ma al contempo di ampliarlo, spiegando nel dettaglio cosa bisogna intendere per sostegno vitale: non necessariamente un “macchinario”, dunque, ma un trattamento sanitario da cui dipende la vita del paziente. «La Corte ha, anzitutto, escluso che il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale determini irragionevoli disparità di trattamento tra i pazienti», si legge nel comunicato di presentazione della sentenza. Con la quale la Consulta ha dichiarato «non fondate» le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal gip di Firenze sull’articolo 580 del codice penale (istigazione o aiuto al suicidio), così come modificato dalla sentenza 242, nella parte in cui subordina la non punibilità dei soggetti coinvolti al requisito del sostegno vitale.

Il caso in esame riguardava Massimiliano, malato di sclerosi multipla morto l’8 dicembre 2022 in una clinica in Svizzera. Lo hanno accompagnato Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, Chiara Lalli e Felicetta Maltese, che si sono autodenunciati al loro rientro in Italia, rischiando il processo e una pena dai 5 ai 12 anni di carcere. La procura aveva chiesto l’archiviazione, che per il gip era impossibile accogliere senza un ulteriore intervento della Corte. Che alla fine è arrivato.

«Nella perdurante assenza di una legge che regoli la materia», sottolinea la Consulta, la guida da seguire resta la sentenza Cappato. La quale prevede che le richieste di accesso al suicidio assistito arrivino da un malato affetto da una patologia irreversibile che sia capace di autodeterminarsi e che reputi le proprie sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili. «Tutti questi requisiti», dice però la Corte, devono essere correttamente accertati dal servizio sanitario nazionale, ed eventualmente dai giudici, con le modalità procedurali stabilite con la 242.

Soprattutto per ciò che riguarda il concetto di «trattamenti di sostegno vitale», che «si basa sul riconoscimento del diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività». Anche nell’eventualità che non sia ancora sottoposto a quei trattamenti. Tra i quali bisogna includere anche «procedure quali, ad esempio, l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali, normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o ’caregivers’ che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo».

I giudici delle leggi, dunque, allargano la platea di persone che potranno accedere alla procedura. Ma secondo una prima lettura della sentenza fornita dall’Associazione Coscioni, resterebbero esclusi i malati oncologici. Come l’attrice romana Sibilla Barbieri, morta in Svizzera nel 2023 dopo il no della Asl. Difficile dire, invece, se la nuova interpretazione avrebbe permesso a Massimiliano di morire in Italia: la decisione ora spetta al tribunale di Firenze, e da quella dipenderà anche la sorte dei tre indagati.

Intanto La Consulta «ha espresso il forte auspicio che il legislatore e il servizio sanitario nazionale assicurino concreta e puntuale attuazione ai principi fissati dalla propria precedente sentenza, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi oggi richiamati. E ha ribadito lo stringente appello, già formulato in precedenti occasioni, affinché sia garantita a tutti i pazienti una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza». 

In mezzo c’è la volontà della persona e la tutela della sua dignità. Da bilanciare, sottolinea la Corte, con la tutela della vita umana, per evitare «la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una “pressione sociale indiretta” su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte. Al riguardo – si legge nella sentenza - occorre qui sottolineare come compito di questa Corte non sia quello di sostituirsi al legislatore nella individuazione del punto di equilibrio in astratto più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione di ciascun individuo sulla propria esistenza e le contrapposte istanze di tutela della vita umana, sua e dei terzi; bensì, soltanto, quello di fissare il limite minimo, costituzionalmente imposto alla luce del quadro legislativo oggetto di scrutinio, della tutela di ciascuno di questi principi, restando poi ferma la possibilità per il legislatore di individuare soluzioni che assicurino all’uno o all’altro una tutela più intensa». 

«Proseguiremo con le azioni di disobbedienza civile fino al pieno riconoscimento del diritto della persona malata di non dover subire condizioni di tortura», commenta Cappato. Che legge comunque nel nuovo intervento della Corte un positivo passo avanti. In attesa della nuova decisione che potrà seguire al vaglio di costituzionalità richiesto dal Gip di Milano per uno dei 6 procedimenti che lo coinvolgono. Anche il gip di Bologna potrebbe fare lo stesso. E ogni giudice, da ora in poi, dovrà attenersi al giudicato costituzionale: l’ultima parola spetta a loro. Sempre che la politica non decida di riprendersela, dopo i ripetuti moniti della Consulta rimasti inascoltati da cinque anni.