Non è un processo qualunque. È un processo “aperto”, “straordinario” e corale, la porta d’ingresso della società per portare «la cultura dello stupro davanti alla giustizia». Non solo per gravità delle accuse e numero di imputati, ma perché l’orrore dell’affaire di Mazan getta lo sguardo dell’intera Francia su un angolo di provincia al di sopra di ogni sospetto.

I fatti sono noti: Dominique Pelicot, 71 anni, è accusato di aver drogato per 10 anni la moglie Gisèle, dal 2011 al 2020, per poi farla violentare mentre era priva di sensi da decine di uomini reclutati su internet con l’annuncio “A sua insaputa”. La donna, sua coetanea, ne era del tutto ignara. La verità impossibile ha bussato alla sua porta solo quattro anni fa, quando l’uomo è stato arrestato per aver filmato di nascosto alcune donne al supermercato, con l’obiettivo puntato sotto la gonna.

Arrivano le denunce, la polizia indaga, perquisisce il pc di Dominque e trova un’enorme quantità di materiale: 20mila foto e video che documento gli abusi, un repertorio dell’orrore che porta la firma dell’imputato. Si contano 92 stupri. Gisèle se li ritrova tutti sotto gli occhi quando la convocano gli agenti. Non si riconosce in quelle immagini, vittima inerme di quella violenza, non può crederci.

Spinta fino all’incoscienza per anni, «vicina al coma», come ha argomentato il gip, ritrova improvvisamente la “vista” sulla voragine che l’aveva inghiottita: la stanchezza, i disagi e la perdita di memoria lamentata per anni non sono parte di una patologia per cui non esiste diagnosi. Sono il frutto della “sottomissione chimica” subita per anni attraverso dosi misurate di ansiolitici, il Temesa, che l’uomo le avrebbe somministrato per gradi secondo le indicazioni di un’infermiera.

Un processo simbolico

Quattro anni dopo le indagini, il 2 settembre, si apre il processo. Che durerà fino al 20 dicembre. Alla sbarra ci sono 51 imputati, tra cui Dominique Pelicot, per la maggior parte accusati di “stupro aggravato”, un reato che in Francia prevede fino a 20 anni di carcere. Alcuni degli uomini coinvolti riconoscono i rapporti, ma negano gli addebiti: non sapevano che la donna fosse drogata, sostengono, pensavano di trovarsi in un “contesto libertino”. Parte il tram tram mediatico. “Come ha potuto non accorgersi di nulla?”, si comincia a vociferare. Le femministe scendono in campo. Partono le proteste in tutto il Paese in solidarietà di Gisèle, che fa una scelta molto precisa: il processo può tenersi a porte aperte. Ormai divorziata dall’ex marito, ne terrà il cognome fino alla fine delle udienze. Per farne un simbolo, quale è già diventata per tutti coloro che le riconoscono un coraggio e una compostezza unici.

«Il faut que la honte change de camp» (bisogna che la vergogna cambi lato), spiega uno dei legali della donna, Stéphane Babonneau, con una dichiarazione diventata subito virale. Bisogna scardinare il tabù dello stupro, fanno eco le attiviste. La cui voce si riflette nella prima testimonianza di Gisèle in aula: «Parlo a nome di tutte queste donne che sono drogate e che non lo sanno, lo faccio a nome di tutte queste donne che forse non lo sapranno mai (...), affinché nessuna donna debba più subire una sottomissione chimica». La stampa affila le penne. Giornalisti di tutto il mondo si accalcano alle porte della Corte d’Assise di Avignone, dove si celebra il processo. Si parla di un caso “fuori dal comune”, il più grande che la Francia abbia vissuto dal processo sul Bataclan. Siamo tutti Gisèle, la sua storia ci riguarda, si legge in quel fiume di editoriali e analisi che accompagna il procedere delle udienze. Ma a quale prezzo, per la giustizia?

Difesa “sotto accusa”

Caschetto castano e grossi occhiali tondi, il voto di Gisèle Pélicot tappezza l’immaginario di questo nuovo autunno francese. I suoi tre figli la accompagnano ad ogni passo, tenendole la mano, uniti nella battaglia che ha stravolto le loro vite. Sorride a stento, spalle dritte e testa sostenuta, Gisèle, mentre si misura a tu per tu con il trauma dello stupro. Dall’altra parte dell’aula, immortalata in uno di quei piccoli ritratti concessi dalla Corte, c’è un’altra donna. Cappelli brizzolati e occhiali rossi spessi. Nessun accenno di vergogna sul volto, per aver deciso di difendere, sola contro una schiera di avvocati, il “mostro” di Mazan. Si chiama Béatrice Zavarro, difensore di Dominique. E di se stessa, per ciò di cui l’accusa l’opinione pubblica.

«In Francia vige lo Stato di diritto, in cui tutti hanno diritto alla difesa e a un giusto processo – dice l’avvocata -. Non ho vergogna di difendere Dominique Pelicot. E questo, anche se sono una donna». Ecco la formula tanto cara anche l’Italia: come può una donna difendere uno stupratore? Zavarro non si sottrae. Ribatte in punta di diritto. E va in aula a denunciare la mancanza di cure fornite in carcere al suo assistito, che ha saltato diverse udienze per via del suo stato di salute. Gli altri difensori degli imputati denunciano il clamore mediatico scoppiato attorno al caso: nomi e indirizzi dei loro assistiti sono spiattellati in rete, alla mercé del tribunale social che si prepara al linciaggio. Il desiderio di occupare un ruolo nel processo è irrefrenabile. Tutti vogliono dire la loro. Tanto che spetterà alla vittima mettere fine al circo mediatico: per esempio interrompendo la petizione a suo sostegno lanciata online da un’ex star dei reality.

Il “mostro ordinario” e la banalità del male

L’affaire di Mezan sconvolge la Francia soprattutto per una ragione. E per spiegarla la stampa ripesca la migliore delle definizioni: è la banalità del male a sbriciolare l’idea di crimine che ognuno serba in sé, il “mostro ordinario”, l’insospettabilità di ciascuno degli imputati che siedono alla sbarra. Sono “uomini qualunque”, di età compresa tra i 26 e i 74 anni. Sono giornalisti, soldati, operai, guardie carcerarie, operai, informatici. Non hanno patologie psicologiche. Alcuni hanno precedenti, ma per la maggior parte sono mariti, padri e colleghi esemplari. Come recita anche il profilo di Dominique: «un chic type», diceva Gisèlle. Trascinata a Mazan, un villaggio di 6mila anime nel dipartimento della Vaucluse, dopo la pensione e 50 anni passati insieme. «Il mio mondo è crollato – dirà in aula -. Sono stata sacrificata sull’altare del vizio».

«Non è stupro, è barbarie»

«Sono uno stupratore come tutti gli altri in questa stanza. Sapevano tutto e non possono dire il contrario», dice Dominique prendendo parola per la prima volta in aula. È un atto di ammissione, il primo passo per leggere dentro “il mostro”. Il punto che ci fa tornare all’inizio, alla cultura dello stupro che finisce alla sbarra in una società, come è anche quella francese, che non ha ancora fatto i conti con una storia di negazione e colpevolizzazione della vittima.

«Parleremo di “scene di sesso” e non di “stupro”», dice la presidente della Corte d’Assise. Una decisione presa d’intesa con le parti per assicurare la presunzione d’innocenza a tutti gli imputati. I social insorgono, monta l’indignazione: la cultura del patriarcato vince anche in aula, denunciano le femministe.

«Quando vedremo i video saranno le immagini a parlare, e non sentiremo più dire che non si tratta di stupro», commenta l’avvocata Zavarro. Questione di forma ma anche di diritto, nello spazio che separa un giusto processo da una condanna sociale. «Stupro è la parola sbagliata, è una barbarie», tuona Gisèle. L’unica a cui spetti dare un nome al proprio dolore.