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Quando Dominique Pelicot – principale imputato nel caso degli stupri di Mazan - le ha affidato la sua difesa legale Bèatrice Zavarro lo ha avvertito senza giri di parole: «Sappia che in questa storia io e lei saremo soli contro il mondo intero».
In effetti per “il mondo intero” Dominique Pelicot è un mostro che non merita attenuanti, un degenerato che per oltre un decennio ha “dato in pasto” la moglie Giselle a cinquanta uomini mentre lei era drogata e priva di coscienza. Poco importa che abbia ammesso tutte le sue colpe dicendosi pentito e pronto a pagarne le conseguenze: l’opinione pubblica si aspetta una sentenza esemplare, che, nel codice penale d’oltralpe, equivale al massimo della pena, ovvero vent’anni di reclusione.
Anche perché gli stupri di Mazan hanno sollevato nella società francese un dibattito profondo e molto ambizioso che travalica l’angusta aula di tribunale di Avignone chiamando in causa l’essenza stessa della violenza maschile e della cultura patriarcale: «L’obiettivo del processo va oltre il suo verdetto, si tratta di cambiare la forma e la sostanza con cui concepiamo i rapporti tra uomini e donne», ha detto il procuratore Jean-François Mayet. Difficile organizzare una strategia difensiva efficace quando il tuo caso giudiziario entra nel tritacarne del processo mediatico che inevitabilmente si sovrappone alle udienze vere e proprie influenzando inevitabilmente le giurie. Sulla scie dell’emozione lo stesso governo francese ha annunciato nuove norme per punire più severamente i casi di violenza sessuale.
Zavarro non è un’adepta delle difese “di rottura”, non ama le acrobazie retoriche, le arringhe bellicose ma prive di sostanza, non trasforma le aule di giustizia in un campo di battaglia, non gesticola, non alza la voce, non dà spettacolo: «Non sono capace a urlare e va bene così», confessa a Le Monde rivendicando uno stile sobrio e resiliente. Ma durante gli ultimi mesi avrebbe voluto urlare più di una volta a causa del l’ostracismo che ha subito: «Sapevo che sarebbe stato difficile e impopolare, ma non avevo immaginato questa solitudine, almeno non in modo così intenso, fin dalla prima udienza tra me e il resto del mondo si è creata una specie di distanza di sicurezza, un po’ come quando vivevamo la pandemia di Covid, sono un’appestata, un avvocato del diavolo».
Zavarro racconta degli scontri, molto duri, con i suoi stessi colleghi che le sconsigliavano di difendere Pelicot, ma soprattutto l’atteggiamento ostile che incontrato nell’aula di tribunale: «Ho dovuto sopportare l’esasperazione selettiva del presidente Roger Arata, ho dovuto sopportare gli insulti e le prediche trasmesse ogni giorno dal suo ufficio, ho dovuto sopportare le aggressioni verbali di chi mi diceva: “Sei una donna, non dovresti difendere uno stupratore”, gli insulti e le minacce. Alla fine di un’udienza un uomo si è avvicinato e mi ha detto in modo inquietante di prendermi cura di me».
Solo una volta Béatrice Zavarro ha vacillato: «Dopo una settimana che era iniziato il processo quando sono tornata a casa, sono crollata emotivamente, ero convinta di non potercela fare e che ne sarei uscita a pezzi. Poi, però, mi sono concentrata sulla mia pratica e per fortuna sono andata avanti». Le prime e tra le poche rendere omaggio al suo coraggio e alla sua integrità professionale sono state Stéphane Babonneau e Antoine Camus, le avvocate della vittima Giselle Pelicot: «Béatrice è un’avversaria leale che dimostra che si può difendere qualcuno con combattività ma senza perdere il senso della misura, è una collega piena di eleganza e umanità».
Se Dominique Pelicot ha ammesso di essere uno stupratore e di meritare una giusta punizione, Zavarro respinge con fermezza le tesi dei difensori dei coimputati che parlano di «manipolazione» da parte del suo cliente che avrebbe ingannato gli uomini invitati ai festini erotici «Nessuno è stato manipolato da Pelicot e nessuno si è mai posto il problema del consenso di sua moglie. Era un uomo violento? No. Ha minacciato qualcuno? No. La porta della camera da letto era chiusa a chiave? No. È responsabile dello stato d’animo di tutti gli altri? No».
Nel corso delle discussioni Zavarro ha provato a restituire un po’ di umanità al “mostro”, spiegando che «non si nasce perversi ma lo si diventa». Poi ha ripercorso l’infanzia costellata di abusi vissuta dal suo cliente che fu perseguitato da un padre «tirannico e incestuoso» che violentava regolarmente la madre, lo stupro subito da parte di un infermiere quando aveva appena otto anni, l’ambiente familiare estremamente degradato in cui è cresciuto: «Il nostro cervello e i nostri comportamenti sono scolpiti dall’ambiente in cui viviamo», ha detto nel corso della sua arringa finale, citando il neuropsichiatra Boris Cyrulnik e chiedendo alla giuria di non considerarlo come un mostro ma come un essere umano».
La sentenza per gli stupri di Mazan è attesa per il prossimo 20 dicembre e salvo clamorosi colpi di scena, difficilmente Dominque Pellicot eviterà i vent’anni di reclusione previsti dal codice penale.