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Strage di via d'Amelio
Quando Vincenzo Scarantino , un piccolo criminale di borgata, divenne collaboratore di giustizia e si autoaccusò di aver partecipato all'esecuzione della strage di Via D'Amelio , pochissimi giornalisti osarono mettere in discussione la sua credibilità. E alcuni la pagano cara. La moda di allora, uguale a quella odierna, era allinearsi senza se e senza ma alle procure. La storia si è ripetuta nel tempo con Massimo Ciancimino , un pataccaro che permise all'allora procura di Palermo di imbastire il fallimentare processo trattativa Stato-mafia .
A seguire, altri pentiti – mai messi in discussione, tranne qualche voce isolata come il nostro giornale – come Vito Galatolo , il quale racconta una storia surreale dove vede “faccia da mostro” ( Giovanni Aiello ) passeggiare in Vicolo del Pipitone assieme a Bruno Contrada e al superpoliziotto Arnaldo La Barbera , per partecipare alle riunioni di Cosa nostra. Tranne qualche caso isolato, diversi procuratori lo prendono in considerazione, mentre firme autorevoli del giornalismo seguono a ruota. Oppure pensare all'ex guardia penitenziaria Pietro Riggio , il quale racconta de relato vicende altrettanto surreali: qualcuno lo paragonò perfino a Tommaso Buscetta.
Senza parlare di Salvatore Baiardo . Andava bene, senza un minimo di critica, quando affermò a Report di aver visto fotocopiare l'agenda rossa di Borsellino e distribuirla a tutti i mafiosi; salvo poi, quando ammise di aver trollato il giornalista, diventando un depistatore perché aveva ritrattato la sua verità iniziale. Ma siamo andati anche oltre . Senza un minimo di ricerca documentale, è stato riesumato l'allora estremista di destra Alberto Volo , un personaggio sentito all'epoca da Giovanni Falcone nell'ambito dei delitti eccellenti e che scartò come completamente inattendibile, anche perché soffriva evidentemente di mitomania.
Fortunatamente, nell'ambito di questa vicenda, c'è stata archiviazione da parte del Gip di Caltanissetta Santi Bologna , mettendo forse una pietra tombale su questa pista. Ma siamo sicuri che risponderanno fuori: sono corsi e ricorsi della storia mediatico-giudiziaria di questo Paese. Su Maurizio Avola, invece – caso unico nella letteratura mediatico-giudiziaria –, senza nemmeno ancora fare scrupolosi riscontri , si è scatenata una potenza di fuoco. Subito è stato stigmatizzato come depistatore ed eterodiretto da non meglio precisate entità, volte a nascondere la partecipazione dei servizi segreti alla strage di Via D'Amelio.
Non solo: indagati con un'ipotesi (poi archiviata) di reato gravissimo, tanto da giustificare l'utilizzo dei trojan, lui, il suo avvocato Ugo Colonna ei giornalisti Michele Santoro e Guido Ruotolo, autori del libro sulle sue inedite dichiarazioni. La sua colpa? Aver rivelato di aver partecipazione, assieme ad altri mafiosi catanesi, all'esecuzione della strage, e di aver segnalato anche la partecipazione di Matteo Messina Denaro .
Singolare questo fuoco scatenatosi, anche perché non solo non ha ribaltato la sentenza del Borsellino Quater, ma avrebbe potuto dare la possibilità di stanare tutti coloro che hanno fatto parte del commando compartimentato da Totò Riina e, soprattutto, di far luce su alcuni punti rimasti inesplorati, come la provenienza dell'esplosivo. Sì, dopo 33 anni, mentre si cercano presunte “entità esterne”, esistono ancora buchi neri. Lo stesso Gip Santi Bologna, che non accolse la prima richiesta di archiviazione della procura nissena, ha scritto che le ricostruzioni giudiziarie finora condotte non sono state in grado di coprire completamente la fase di preparazione e collocamento dell'auto esplosiva, né l'identità di tutti i membri del commando che hanno agito in Via D'Amelio , né chi ha – e da dove ha – azionato materialmente il dispositivo.
Il discorso dell'esplosivo è l'aspetto cruciale. Maurizio Avola ha spiegato anche da dove proveniva. Ad oggi, nonostante la seconda richiesta di archiviazione, non è stata fatta la comparazione con quello sequestrato il 18 novembre 1992 a Catania. Parliamo di una parte di quell'esplosivo militare T4, proveniente dall'ex Jugoslavia e trasportato dalla Toscana dai catanesi prima delle stragi di Capaci e Via D'Amelio , per farlo giungere in Sicilia ed essere utilizzato in vari attenti.
L'aspetto inquietante è che effettivamente questo trasporto fu individuato già in quegli anni, tanto che ci fu una informativa dell'Alto Commissario ; ma per una questione di non meglio specificata competenza, se ne occupò la procura di Firenze e poi altrove. Parliamo del 1991-1992 , ancora prima delle stragi.
Ma c'è un aspetto che nemmeno l'avvocato Ugo Colonna, legale di Avola, ha sottolineato nelle sue memorie difensive: Borsellino lo sapeva. Lo si apprende rileggendo il verbale del 6 novembre 1992 , dove la signora Agnese Piraino , moglie di Borsellino, racconta al magistrato Cardella le vicissitudini del giudice. Parliamo del fatto che Borsellino sapeva che era arrivato il tritolo per lui. Forse siamo ai primi di luglio, e Agnese ricorda che «un'altra persona, padre Cesare Rattoballi, ha detto a mia figlia Lucia che mio marito gli aveva confidato di aver saputo che un carico di esplosivo era arrivato dalla Jugoslavia». Eccolo: in tempi assolutamente non sospetti, emerge una precisione di Borsellino che non può essere scartata come coincidenza. Parliamo dello stesso carico, proveniente dall'ex Jugoslavia, dichiarato tra l'altro da Avola fin da quando ha iniziato a collaborare con la giustizia nel 1994? Non si comprende come non possa interessare. Confermerebbe appunto che il progetto di attentato non solo è stato deliberato proprio nel 1991, ma che è stato utilizzato soprattutto quel tipo di esplosivo di specifica provenienza. E forse bisognerebbe anche chiedersi perché le procure non si siano coordinate in quel periodo, quando pendeva la condanna a morte di Falcone e Borsellino. Ma su Avola tutti hanno già emesso una sentenza. Dice corbellerie eterodirette come se fosse uno Scarantino o un Ciancimino qualsiasi. Eppure parliamo di un ex mafioso catanese che ha sulla coscienza una ottantina di vittime, poi pentito, che permette numerosi procedimenti. Tra questi spicca “ Orsa Maggiore ”, un procedimento che, meglio di ogni altro, ha riassunto le vicende di Cosa nostra catanese tra gli anni '70 e gli anni '90, consentendo la condanna di tutti i componenti storici dell'organizzazione e, tra essi, dello stesso Benedetto Santapaola, di Aldo e Sebastiano Ercolano, Vincenzo Aiello, Eugenio Galea, Natale di Raimondo .
Parliamo di un mafioso, Avola, che faceva parte di quel gruppo di catanesi considerati “particolari”. Nelle intercettazioni di Via Ughetti, in un passaggio delle trascrizioni del 16 marzo 1993, Nino Gioè dice a Gioacchino La Barbera che deve incontrarsi con Nitto Santapaola e, riferendosi ai catanesi come uomini che fanno determinate azioni, afferma: «Per me i migliori di Catania sono quei quattro, cinque picciotti a livello di terroristi, di fedayn.
Loro sanno di queste cose, perché io ci sono stato insieme in cose particolari che interessano pure a noi». Forse andrebbe approfondita ancora di più la testimonianza di Avola. E invece si alimentano teorie del complotto completamente infondate: dai servizi segreti alla società israeliana, ai presunti mancati riscontri, come il fatto che fosse impossibile compisse determinate azioni visto che era in libertà vigilata. Ma di questo se ne parlerà la prossima settimana.