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«Su indicazione dei miei legali, mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Alla fine l’ex premier Silvio Berlusconi ha deciso legittimamente di non essere sottoposto alle domande della Corte d’appello sulla presunta trattativa Stato- mafia. L’attesa era alta, tanto che nell'aula bunker i controlli sono stati più intensi da parte di polizia e carabinieri, soprattutto per il ritorno della stampa nazionale che, a differenza del processo di primo grado, non sembra seguire l’appello con altrettanta attenzione. Appena entrato in aula, i giudici hanno illustrato a Berlusconi le prerogative garantitegli dallo status di teste assistito, status determinato dal fatto che a suo carico pende una inchiesta – già archiviata, ma riaperta dopo le intercettazioni di Graviano recluso al 41 bis - a Firenze sulle stragi del ' 93, quindi su fatti ' probatoriamente collegati' a quelli oggetto del processo ' trattativa'.
La Corte ha respinto la richiesta della difesa di Dell'Utri di proiettare un video di una conferenza stampa di Berlusconi del 20 aprile 2018, dopo la sentenza di primo grado sulla trattativa. In quell’occasione l’ex premier disse: “Il governo Berlusconi non ha mai ricevuto nessuna minaccia dalla mafia e dai suoi rappresentanti”. Non è stato, dunque, trasmesso il video, ma il giudice Angelo Pellino ha comunque acquisito le trascrizioni.
La sua testimonianza era importante per l’ex senatore Marcello Dell’Utri. Perché? Secondo la tesi accusatoria, confermata in primo grado, il secondo corpo politico minacciato sarebbe stato il governo Berlusconi. A partire dal 1994, quando fa il suo ingresso sulla scena politica nazionale nella veste di presidente del Consiglio, il ruolo di cinghia di trasmissione delle minacce mafiose cambia interprete e sarebbe stato assolto non più dagli ex Ros, per i quali, quindi, il reato si ritiene consumato nel 1993, bensì da Marcello Dell’Utri che, grazie ai rapporti con Vittorio Mangano, esponente di spicco della mafia siciliana trapiantato in Lombardia, alimenta la trattativa.
È infatti provato che anche in quel periodo uno dei principali ispiratori di Forza Italia e lo stalliere mafioso si siano incontrati, ma – qui il punto cruciale– i contenuti “estorsivi “di quegli incontri sono ricostruiti in sentenza in modo solo inferenziale, senza prove dirette e senza alcun riscontro della controparte, Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, sulla base di un ragionamento che assomiglia però più a una mera congettura che ad un’effettiva prova. Berlusconi avrebbe dovuto, appunto, testimoniare essendo “paradossalmente” designato come vittima, tanto che il processo di primo grado ha anche condannato gli imputati a risarcire i governi che sarebbero stati minacciati.
Dalle risultanze processuali emerge ad avviso dalla corte di primo grado che nel periodo tra il 1992 e il 1994 i vertici di Cosa Nostra ( Riina, Provenzano e Cinà) hanno prospettato “agli esponenti delle Istituzioni, anche per il tramite di Vito Ciancimino, deceduto, una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura ( tra l’altro concernenti la legislazione penale e processuale in materia di contrasto alla criminalità organizzata, l’esito di importanti vicende processuali e il trattamento penitenziario degli associati in stato di detenzione) per gli aderenti” al loro sodalizio mafioso. “Ponendo l’ottenimento di detti benefici come condizione ineludibile per porre fine alla strategia di violento attacco frontale alle Istituzioni la cui esecuzione aveva avuto inizio con l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima”.
Ma quali benefici avrebbe ottenuto la mafia? Per quanto riguarda i primi due governi “minacciati” del biennio 92- 93, sarebbe stata la mancata proroga del 41 bis a circa 300 soggetti. Ma tale “prova” è stata sviscerata durante il processo d’appello ed emerge chiaramente che la mancata proroga è scaturita dalla sentenza della Consulta, la quale aveva cristallizzato il principio della valutazione caso per caso. E il governo Berlusconi? Nessuna, tranne una ipotesi sul famoso decreto Biondi, quello all’epoca ribattezzato “salva ladri” che però riguardava il divieto della custodia cautelare in carcere ( trasformata al massimo in arresti domiciliari) per i reati contro la Pubblica amministrazione e quelli finanziari, comprese la corruzione e la concussione. Di quelli mafiosi, non ce n’erano traccia.