PHOTO
«Spiata dai servizi segreti». È questa la denuncia che arriva nei confronti dell’Eurocamera dall'ex vice presidente del Parlamento europeo, Eva Kaili, arrestata e da pochi giorni di nuovo in libertà nell'ambito dell'inchiesta del Qatargate.
Kaili è stata quattro mesi in cella e due ai domiciliari, accusata di aver fatto parte di un'organizzazione criminale finalizzata al riciclaggio di denaro, corruzione e concussione che prevedeva il pagamento di «ingenti somme di denaro» da Qatar e Marocco, per influenzare i processi politici comunitari. Secondo la politica greca, però, dietro l’indagine si celerebbe un gioco ben più complesso, nel cui ambito i servizi l'avrebbero «monitorata durante la sua attività con la commissione Pegasus, che indagava sull'utilizzo di software di spionaggio per sorvegliare eurodeputati e cittadini europei».
L’ex vice presidente aveva anticipato tali indiscrezioni già nell’intervista rilasciata dopo la sua scarcerazione al Corriere della Sera, al quale aveva sottolineato che «dal fascicolo giudiziario i miei avvocati hanno scoperto che i servizi segreti belgi avrebbero messo sotto osservazione le attività dei membri della commissione speciale Pegasus (Indaga sulle intercettazioni di leader europei fatte illegalmente dal Marocco, ndr.). Il fatto che i membri eletti del Parlamento siano spiati dai servizi segreti dovrebbe sollevare maggiori preoccupazioni sullo stato di salute della nostra democrazia europea. Penso sia questo il vero scandalo».
Nel corso dell’ultima riunione plenaria, lunedì scorso, la presidente del Parlamento, Roberta Metsola, ha annunciato che Kaili ha formalmente chiesto di verificare se sia stata violata la sua immunità ai sensi della regola 7 del Regolamento interno riferito alla commissione per gli affari legali (Juri) del Parlamento europeo. La regola prevede che tutti i deputati possano chiedere la difesa dell'immunità al’Europarlamento : «Nei casi in cui si presume che una violazione dei privilegi e delle immunità di un deputato o di un ex deputato da parte dell'autorità di uno Stato membro o dalla Procura europea si è verificata o sta per verificarsi - recita l'articolo - può essere presentata una richiesta di decisione del Parlamento in merito alla violazione o al rischio di violazione di tali privilegi e immunità».
Spiato anche il giudice Claise
A dar man forte alla tesi di Kaili due circostanze: l’esito dell’indagine svolta dalla Commissione e la notizia, diffusa dal quotidiano Rtbf, di un’attività di spionaggio anche a carico di Michel Claise, il giudice istruttore che l’ha fatta finire in cella. «La pubblicazione di questa notizia - hanno fatto sapere con una nota Sven Mary e Michalis Dimitrakopoulos, legali di Kaili - ha suscitato notevole interesse, anche se sono stati pochi i media specifici che attaccano sistematicamente la signora Kaili, accusandola di creare scenari di cospirazione. Ma la sconvolgente notizia che ne è seguita, secondo la quale anche il giudice istruttore Michel Claise sarebbe monitorato, li ha lasciati senza parole. Non c'è uno scenario complottista, sembra che la triste realtà sia che a Bruxelles, capitale d'Europa, si siano installati i conflitti geopolitici del Golfo Persico, del Nord Africa, della Penisola Arabica, di cui oggi è vittima la signora Eva Kaili, domani i giudici e i pubblici ministeri, dopodomani chi?».
Secondo Rtbf, a seguito di sospetti di spionaggio, i telefoni di diversi membri della polizia e della magistratura del Belgio sono stati affidati agli agenti di polizia federale della "Computer Crime Unit", che hanno sottoposto il tutto ad analisi approfondite e ripetute. E tra i vari telefoni risultati infettati c’è proprio quello di Claise. Secondo le informazioni raccolte da Rtbf, non è da escludere un’attività di spionaggio anche nello scandalo Qatargate. «Il fatto che il Marocco sia sospettato di aver ampiamente utilizzato Pegasus - scrive il quotidiano - alimenta questa pista. D'altro canto, alcune tracce di infezione sarebbero antecedenti allo scoppio del Qatargate, il che va contro l'ipotesi di un'azione diretta unicamente al dossier corruzione. In altre parole, se alcune persone sono state eventualmente spiate perché gravitano in questa particolare indagine, altre potrebbero essere state prese di mira perché rappresentano in ogni momento "obiettivi di alto valore" per un'organizzazione ostile», tra questi il giudice Claise, che gestisce numerosi casi finanziari e di corruzione che coinvolgono Stati e organizzazioni straniere.
Le conclusioni della Commissione Pega
Pochi giorni fa, la Commissione Pega aveva messo nero su bianco i rischi dello spyware, definiti non «solo una tecnologia» ma anche «uno strumento in una cassetta degli attrezzi più ampia, quella dei regimi autoritari», secondo quanto detto da Sophie in ‘t Veld, relatrice della commissione. Le cimici spia, infatti, sono utilizzati come parte integrante di un sistema, e inserite, in linea di principio, in un apparato di garanzie che si rivelano però «spesso deboli e inadeguate. Ciò è per lo più involontario, ma in alcuni casi il sistema è stato in tutto o in parte piegato o progettato appositamente per fungere da strumento di potere e controllo politico - si legge nella relazione -. In tali casi, l'uso illegittimo dello spyware non è un incidente, ma rientra in una strategia deliberata». Che coinvolgerebbe anche gli Stati e la magistratura: «La base giuridica per la sorveglianza può essere redatta in termini vaghi e imprecisi, in modo da legalizzare l'uso ampio e illimitato dello spyware - si legge -. Il controllo ex ante sotto forma di autorizzazione giudiziaria alla sorveglianza può essere facilmente manipolato ed eviscerato di qualsiasi significato, in particolare in caso di politicizzazione, o di appropriazione della magistratura da parte dello Stato. I meccanismi di vigilanza possono essere mantenuti deboli e inefficaci e sottoposti al controllo dei partiti al governo. I mezzi di ricorso e i diritti civili possono esistere sulla carta, ma diventano nulli in caso di ostruzioni da parte degli organi governativi. Ai ricorrenti viene negato l'accesso alle informazioni, anche per quanto riguarda le accuse a loro carico che avrebbero giustificato la loro sorveglianza. I pubblici ministeri, i magistrati e la polizia si rifiutano di indagare e spesso impongono alle vittime l'onere della prova, attendendo che dimostrino di essere state prese di mira con spyware. Ciò lascia le vittime in una situazione di stallo, in quanto viene loro negato l'accesso alle informazioni».
E anche i media svolgono un ruolo, trasformandosi in «canale per campagne diffamatorie utilizzando il materiale ottenuto con spyware». Il tutto in nome di una "sicurezza nazionale" «spesso invocata come pretesto per eliminare la trasparenza e la responsabilità».