PHOTO
TRENT’ANNI FA LA MORTE DI SERGIO MORONI, VITTIMA “COLLATERALE” DI TANGENTOPOLI
«Quando la parola è flebile, non resta che il gesto», scrisse Sergio Moroni, deputato socialista accusato di corruzione e morto suicida il 2 settembre del 2022. «Mi auguro che possa servire a evitare che altri nelle abbiano a patire le sofferenze morali che ho vissuto in queste settimane».
A Sergio Moroni vittima della furia giudiziaria che travolse la repubblica
Il 2 settembre del 1992 il politico socialista si toglieva la vita Le sue lettere di addio un j’accuse della gogna giudiziaria
Ci vuole la sfrontatezza di Piercamillo Davigo per affermare, dopo tren'tanni, che con il suicidio di Sergio Moroni, parlamentare ed ex segretario regionale del Psi in Lombardia, “il metodo dell'indagine” non c'entri nulla.
“Nessuno di noi lo ha mai visto. Lo conoscevamo solo attraverso le carte: non vedo come qualcuno possa seriamente attribuire a noi la responsabilità di questo fatto”.
Nel pomeriggio del 2 settembre 1992 Moroni, 47 anni, scese in cantina e si sparò in bocca. Lo trovarono a sera dalla colf e dall'autista. Per spiegare il gesto aveva lasciato molte lettere una delle quali, la più nota, indirizzata al presidente della Camera e futuro capo dello Stato Giorgio Napolitano.
Aveva ricevuto due avvisi di garanzia: uno per le discariche lombarde i lavori delle Ferrovie Nord, in veste di predecessore del segretario regionale del Psi, l'altro per l'ospedale di Lecco, in quando ex assessore regionale alla Sanità.
Alla fine dell'estate del 1992 l'inchiesta Mani pulite era già un tritacarne ma ancora lontana dai livelli che avrebbe raggiunto nei mesi precedenti, quando gli avvisi di garanzia sarebbero diluviati a raffica.
Riceverne un paio poteva ancora cogliere di sorpresa e travolgere quelli a cui venivano recapitati.
Prima di Moroni a uccidersi era stato, il 17 giugno, Renato Amorese, segretario del Psi di Lodi e ancora prima, il 23 maggio, Franco Franchi, coordinatore di una Usl di Milano. In quella estate le vittime erano state in realtà parecchie: Giuseppe Rosato, Mario Luciano Vignola, l'imprenditore Mario Comaschi, in luglio. A conti fatti i suicidi di tangentopoli sono molti, 41, con i nomi eccellentissimi di Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni, il 20 luglio 1993 e l'industriale Raul Gardini, tre giorni dopo. Senza contare quelli che ci rimisero la vita perché il fisico non resse, come il tesoriere del Psi Vincenzo Balzamo, stroncato da un infarto il 2 novembre 1992. Moroni però fece qualcosa in più degli altri.
Trasformò il suo gesto in un atto d'accusa. Provò a impedire, con le sue lettere, che la scelta di togliersi la vita fosse contrabbandata come dettata dalla vergogna, quasi un'ammissione di colpa.
Balzamo, al contrario, inchiodava la politica, ancor più che la magistratura, e il sistema mediatico all'orgia di linciaggio alla quale si abbandonò allora.
Riletta oggi quella lettera a Napolitano permette di mettere a fuoco le responsabilità di una gestione di tangentopoli che avrebbe potuto correggere storture e ridare linfa alla politica e invece ne decretò un declino irreversibile.
La magistratura intervenne contro reati effettivi e Moroni non lo contestava. Lo fece usando mezzi spesso impropri, adoperando in modo indebito la carcerazione preventiva come strumento di pressione, e provocando così molti di quei 41 suicidi. Lo fece puntando su un filo diretto con l'opinione pubblica, grazie alla complicità del sistema mediatico, che mise il potere togato al di sopra di ogni controllo e incrementò il clima di linciaggio nel quale si consumò e alla fine anche si esaurì la stagione di Mani pulite.
Ma i reati c'erano. Sarebbe spettato alla politica riconoscere che quei reati erano universalmente noti, coperti, come scrisse Moroni, da “una cultura tutta italiana nel definire regole e leggi che si sa non potranno essere rispettate, muovendo dalla tacita intesa che insieme si definiranno solidarietà nel costruire le procedure e i comportamenti che violano queste regole”.
Sarebbe stato compito e obbligo della politica, ma anche dei media, correggere le derive di quel sistema senza liquidare la Repubblica come associazione a delinquere. Perché alla fine di questo si trattò.
La politica non fu in grado di fronteggiare la sfida.
In parte perché troppo debole, in parte perché in quel naufragio molti, illudendosi, videro una preziosa occasione. La risposta di Napolitano è da questo punto di vista esemplare. Dimostra infatti allo stesso tempo quanto il presidente della Camera e la politica tutta fossero consapevoli della validità della denuncia del suicida ma anche di quanto non potessero o non volessero e probabilmente entrambe le cose reagire in alcun modo: “Faremo così – io penso – la nostra parte anche come destinatari dell'ultimo messaggio del collega Sergio Moroni.
Cogliendo il senso del riconoscimento del proprio errore e della denuncia di comportamenti altrui considerati non giusti, che insieme si ritrovano in quella lettera. Rispettando il corso della giustizia. Rispettando una sconvolgente decisione personale, che appartiene alla sfera più intima, in qualche modo insondabile, della coscienza di un uomo”.
Così non solo la Repubblica ma l'intera politica accettarono anche loro di suicidarsi.