Le prime dichiarazioni ufficiali dei nuovi padroni della Siria sono una morbida carezza alla comunità internazionale, preoccupata che il paese arabo possa improvvisamente scivolare dal dispotismo laico di Assad a una tirannia islamista che calpesti i diritti delle donne e le libertà politiche e religiose. Scene già viste altrove e che in molti temono di rivedere a Damasco.

Dopo le parole rassicuranti di Muhammad al-Jolani, leader di Hayat Tahir al-sham (Hts) che da tempo afferma di aver rinunciato all’ideologia qaedista, oggi il nuovo governo è intervenuto ufficialmente tramite il portavoce Mazen Jaber, assicurando che la Siria del futuro sarà un paese libero e democratico, nulla a che vedere con il regime integralista dei talebani in Afghanistan e ancor meno con il cupo Califfato messo in piedi dall’Isis tra il 2014 e il 2017: «In tutti questi anni di amministrazione a Idlib e nelle altre zone liberate non abbiamo mai imposto il velo a nessuno, né ai musulmani né ai curdi, né ai drusi, né ai cristiani. Perché dovremmo cominciare a imporre adesso limiti alle libertà individuali?».

A garantire che verrà impiegato il “modello Idlib” la nomina a primo ministro di Muhammad Bashir, fedelissimo di al-Jolani il quale per anni ha amministrato con estrema tolleranza proprio le regioni del nordovest siriano, roccaforti dei miliziani di Hts. Un altro segnale importante di questa transizione apparentemente tranquilla è l’assenza di rappresaglie nei confronti delle migliaia di funzionari legati al vecchio regime, in particolare delle forze armate: i vertici di Hts hanno concesso l’amnistia a tutto il personale militare che in questi anni ha prestato servizio per Assad garantendo la loro incolumità.

Ciò è stato favorito anche e soprattutto dalla decisione dei comandanti dell’esercito di non opporsi all’avanzata delle milizie che sono entrate a Damasco praticamente senza sparare un colpo ed evitando un bagno di sangue. Nella giornata di sabato circa cinquemila tra soldati semplici e ufficiali avevano cercato rifugio terrorizzati nel vicino Iraq, ora potranno tornare in patria senza temere vendette.

Trattative in corso anche con la Russia che dispone di due importanti basi militari a Tartus e Khmeimim: nonostante Mosca sia stata per anni la stampella militare di Assad macchiandosi di atroci crimini di guerra tra il 2015 e il 2019 quando Aleppo fu rasa al suolo, al-Jolani e soci vogliono negoziare una soluzione diplomatica e non traumatica anche con Vladimir. Putin.

Unendosi al clima di concordia generale, è intervenuto anche il Parlamento siriano che, in una nota ufficiale, saluta il changing regime: «L’8 dicembre è stato un giorno storico nella vita di tutti i siriani. Sosteniamo il desiderio del popolo di costruire una nuova Siria focalizzata su un avvenire migliore, governato dalla legge e dalla giustizia».

Anche se è ancora molto presto per giudicare la fibra democratica degli attuali leader, la loro capacità di mantenere le promesse e di costruire una coalizione plurale e inclusiva, le prime mosse sembrano incoraggianti. A loro insegnamento e vantaggio c’è l’esempio delle primavere arabe del 2011, vere e proprie rivoluzioni tradite. Errori da non ripeterte. In Egitto dopo la fine di Mubarak e la breve parentesi dei Fratelli Musulmani, i militari sono tornati al potere e oggi il maresciallo al-Sisi continua a governare il Paese con il pugno di ferro. In Tunisia il dopo- Ben Alì aveva acceso grandi speranze, aperto la strada a una Costituzione avanzata democratica, progressi cancellati brutalmente dall’arrivo al potere del “satrapo” Kais Saied.

Per non parlare della Libia che dalla caduta del colonnello Gheddafi si è trasformata un laboratorio tribale di violenza e instabilità, una nazione fallita, incapace di esprimere un governo unitario e campo di battaglia di potenze straniere. Al-Jolani sarà così abile e illuminato da evitare quel drammatico climax per la Siria?

Nessuno è in grado di prevedere se la nuova amministrazione troverà la strada per riconciliare un Paese dilaniato da anni di cruenta guerra civile, diviso in zone d’influenza geopolitica dai player regionali (Iran e Turchia su tutti) che all’interno conta una popolosa regione curda e diverse minoranze religiose.

E che è collocato all’esatto centro di un Medio Oriente scosso dalla guerra tra Benjamin Netanyahu l’asse sciita a guida iraniana, dominato dagli interessi materiali degli Stati Uniti e delle monarchie sunnite del Golfo, dal sogno neo-ottomano di Erdogan, dalla minaccia permanente del terrorismo di matrice jihadista, e last but not least, dall’eterna e irrisolta questione palestinese, mai lontana come oggi da una soluzione anche parziale. In un contesto così intrecciato turbolento, la piccola Siria di al-Jolani e dell’Hts rischia di diventare il classico vaso di coccio stretto tra vasi di ferro, in tal senso anche la più virtuosa delle agende politiche interne rischia di naufragare nel mare magno delle logiche esterne ed eterodirette.