Se il garantismo è morto a Bari, anche in Parlamento non si sente molto bene. Abbiamo assistito in questi giorni, in contemporanea, alla tarantella del “siamo garantisti però” sia per vicende giudiziarie e di sicurezza che si sono sviluppate in Puglia, sia a causa dei tentativi illiberali di sfiducia individuale nei confronti di due ministri in Parlamento.

E allora aboliamolo, questo termine “garantismo”, visto che è diventato la foglia di fico di ogni sorta di nefandezza, nella sagra dei “però”, termine che fa a pugni con quello a cui si accompagna. Potremmo definirci “liberali”, cioè coltivatori del dubbio. Oppure seguaci irriducibili di un certo articolo della Costituzione, quello sulla presunzione di non colpevolezza. Ma “garantisti” non più, per favore. Tranne nei casi in cui la “i” della desinenza sia seguita da un semplice punto.
Lo spettacolo cui abbiamo assistito in Puglia è stato qualcosa di raccapricciante. E non è ancora finito. Non dubitiamo del fatto che, come dicono gli esponenti locali, anche quelli di prestigio, dei partiti di centrodestra, la regione sia diventata, da quando è governata dalla sinistra, un coacervo di delinquenza, sfruttamento e corruzione. Crediamo loro sulla parola. E pensiamo anche che il fatto sia stato già denunciato a gran voce sul piano politico. Ma nel momento in cui intervengono i prefetti, come a Bari con la procedura di accesso agli atti che spesso precede lo scioglimento del Comune, e le due inchieste giudiziarie, quella di febbraio e l’altra di questi giorni, il garantista si ferma. Non parla più, alza le mani e si rifiuta di affidare ai pubblici ministeri, cioè a soggetti non elettivi e “irresponsabili” per legge, la sorte politica di coloro, come gli amministratori locali o regionali, che devono rispondere solo agli elettori. Il garantista, anche quello, e soprattutto quello, che pure ha denunciato in sede politica la cattiva amministrazione degli avversari, non usa le inchieste giudiziarie. Non chiede le dimissioni di nessuno, perché ritiene che solo gli elettori possano farlo. L’uso politico delle inchieste giudiziarie lo lasci a Giuseppe Conte, è il suo mestiere. E infatti in queste ore il capo dei grillini e della politica delle forche sta facendo saltare ogni accordo politico sul “campo largo” delle sinistre in omaggio a un’ordinanza del giudice di Bari.
Non va meglio in Parlamento. Fin dai tempi della prima, in assoluto, proposta di sfiducia individuale, quella nei confronti del ministro guardasigilli Filippo Mancuso, presentata dalla stessa maggioranza di cui era espressione, l’oscar di questo tipo di iniziativa va ai partiti di sinistra. Ma quel ministro di Giustizia non era indagato né processato. Aveva fatto di peggio che essere sospettato della commissione di reati: aveva osato addirittura mandare gli ispettori agli uomini del Pool di Milano.
Eravamo negli anni Novanta, anni complicati, mentre la mafia uccideva ogni giorno. E ogni giorno i magistrati arrestavano i politici della prima Repubblica. Non è cambiato molto da allora. Perché proprio da allora il chiedere le dimissioni di questo o quel ministro, e presentare anche queste mozioni di sfiducia individuale che servono solo come passerelle e fiere dell’esibizione perché vengono regolarmente respinte, è sempre legato a inchieste giudiziarie. Ed è inutile poi, ma sempre dopo, strillare perché qualcuno, dieci o dodici anni dopo, è stato assolto. Perché quando le carriere politiche sono bruciate, quando la vita è stata stravolta, quando qualcuno come Enzo Tortora ci è morto, la lezione non serve mai. E si è pronti a ricominciare. Ma non è più solo la sinistra a gridare “crucifige crucifige”. E quelle piccole isole che parevano immuni, come Forza Italia, hanno subito notevoli contaminazioni, come è accaduto in Puglia.
Come è stata trattata per esempio Maria Elena Boschi, lapidata per un’inchiesta che non riguardava neanche personalmente lei ma il padre, poi comunque prosciolto? Dovrebbe ricordarsene Daniela Santanché, che ha tutto il diritto a essere difesa e anche a non dimettersi. Ma, lo ricordiamo anche alla presidente del Consiglio, non sarebbe giusto chiederglielo neppure dopo un eventuale rinvio a giudizio. La storia non ci ha insegnato proprio niente? Quanti esponenti politici addirittura condannati in primo grado sono stati poi assolti? Non esistono i campioni dell’onestà, e neanche della perfetta buona amministrazione.

Non ci sono campioni da mettere sul podio con la medaglia d’oro. Questo va detto anche al sindaco di Bari Antonio Decaro e al governatore della Puglia Michele Emiliano. E lasciamo perdere le ipocrisie del Movimento cinque Stelle, molto tollerante con i propri esponenti indagati o condannati come il sindaco di Livorno o quella di Torino, Chiara Appendino, promossa anche con l’elezione in Parlamento. Possiamo chiedere a questo punto un po’ di silenzio al mondo della politica sulle inchieste giudiziarie? E qualche rinuncia al loro uso politico? Non per un ipocrita rispetto della magistratura in cui ormai pochi, con qualche ragione, credono. Ma per rispetto di se stessi e di quello in cui si crede. Se ancora qualcosa c’è.