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LA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO GIORGIA MELONI, CARLO NORDIO MINISTRO GIUSTIZIA
A uno sguardo superficiale, si direbbe che siamo agli atti di autolesionismo. O meglio, al pallone calciato in corner alla disperata, sotto l’assedio della squadra avversaria. L’emendamento al decreto Flussi che trasferisce alle Corti d’appello la competenza sui ricorsi dei migranti sembrerebbe un rimedio poco strategico, a voler usare un eufemismo. Intanto potrebbe allontanare i target di efficienza concordati, nell’ambito del Pnrr, per i giudizi di secondo grado, e in ogni caso rischia di rinviare solo di poco il minuto del “gol” avversario.
La modifica proposta dalla relatrice Sara Kelany, di FdI, nella commissione Affari costituzionali di Montecitorio di per sé sarebbe insufficiente a spezzare la sequenza di batoste inflitte, sui migranti e sul modello Albania, dalle toghe al centrodestra. Se i consiglieri di Corte d’appello sono un po’ meno esperti, meno specializzati in materia di protezione internazionale, rispetto ai colleghi delle sezioni “dedicate” istituite in primo grado, è pur vero che si tratta di magistrati con maggiore esperienza, obbligati dal loro stesso ruolo a un’ancora più meditata e cauta ponderazione.
E dunque a una ancora più elevata attenzione per i diritti sanciti, dalla Costituzione italiana, nella prima, intangibile serie di articoli. Ma è invece proprio in vista di una valutazione più complessiva che l’Esecutivo ha deciso di modificare, intanto, la “destinazione di arrivo” dei ricorsi presentati dai richiedenti asilo, incluso chi verrà, anche in futuro, “trattenuto” nel centro albanese di Gjader.
Al momento sembra improbabile che l’orientamento della magistratura possa cambiare, che si tratti di giudici assegnati alle sezioni Immigrazione dei Tribunali o, appunto, delle Corti d’appello. Eppure ci sono aspetti sui quali il governo è convinto di poter puntare con successo. Tanto da far escludere una ritirata, una resa sul “modello Albania”. E anzi, fonti governative riferiscono l’esatto contrario: si andrà avanti. «Se sull’immigrazione un governo sceglie una strada, non possono certo essere le valutazioni della magistratura a spingerlo in una direzione diversa», è la sintesi del discorso.
Certo, una figura non certo marginale in Fratelli d’Italia come Ignazio La Russa – nel giorno in cui Elon Musk ha partorito il suo “se ne devono andare”, rivolto ai giudici italiani – aveva sommessamente detto che bisognerà attendere la pronuncia della Corte di Giustizia Ue. I giudici di Lussemburgo sono stati interpellati da più di un Tribunale italiano: da ultimo, è stata la sezione Immigrazione del Tribunale di Roma a rimettere alla giurisdizione europea la norma oggetto del contrasto fra governo e toghe, contenuta nel decreto Paesi sicuri e destinata a essere convertita in legge come emendamento al decreto Flussi.
Con quel provvedimento, Paesi come Egitto e Bangladesh vengono definiti, appunto, in grado di garantire la tutela dei diritti umani. I magistrati italiani che hanno rinviato la questione alla Corte di Lussemburgo chiedono di valutare se la classificazione stabilita dall’Esecutivo di un Paese membro dell’Ue, qual è l’Italia, possa superare la valutazione del singolo giudice sul singolo caso, e se dunque quel certo giudice non sia piuttosto legittimato a disapplicare il decreto Paesi sicuri.
Ma è proprio qui il punto: davvero un Tribunale, una sezione della magistratura civile, ha informazioni più complete e attendibili di un intero apparato statale? Intanto, Giorgia Meloni, di rinunciare al “modello Albania”, non vuol sentir parlare. Il trattenimento a Gjader è uno spauracchio che dovrebbe dissuadere non solo chi si mette in viaggio, in mare, verso l’Italia, ma anche scoraggiare gli stessi “trafficanti di esseri umani”. L’idea della “deterrenza” piace a diverse cancellerie dell’Ue. E la premier è a maggior ragione determinata ad andare avanti. Sa, certo, che il quadro non può ridursi alla brutale semplificazione di Elon Musk. Il quale suggerisce di licenziare i giudici. Manco fossero dei precari cococo.
E allora? E allora la chiave è nelle mani di Carlo Nordio. Il guardasigilli. È lui la risorsa. La figura da cui ora l’intero Esecutivo aspetta la soluzione. Fino a poche settimane fa i provvedimenti e l’intera strategia sui migranti sono passati per il Viminale, piuttosto che per via Arenula. Ma nel momento in cui il conflitto giurisdizionale supera, per urgenza, il profilo della sicurezza, della difesa dei confini, a presidiare la prima linea è il ministro della Giustizia.
E il punto di vista di Nordio, che certamente contribuisce a rassicurare Meloni, è molto semplice: davanti a un giudice terzo – che forse sarà solo la Corte di Giustizia, ma che potrebbe rivelarsi anche nelle Corti d’appello o nella Cassazione – le decisioni dei Tribunali non potranno che apparire prive di una competenza decisiva propria solo di uno Stato inteso in tutte le sue articolazioni. Solo lo Stato, è la difesa con cui il governo si appresta a battersi sia a Piazza Cavour che, quando sarà possibile, a Lussemburgo, può «condurre istruttorie», anche attraverso i «servizi segreti», per verificare la sicurezza di un certo Paese straniero e, dunque, l’assenza dell’obbligo di assicurare rifugio politico al migrante che provenga da quel particolare Stato.
È qui, esattamente nel limite quasi ontologico di un organo giurisdizionale, lo snodo preciso sul quale il governo è convinto di poter prevalere sul Tribunale di Roma e sulle altre sezioni Immigrazione. E la “vittoria” potrebbe essere decretata, è l’auspicio riferito da fonti dell’Esecutivo, prima della sfida alla Corte di Giustizia Ue, che rischia di doversi disputare non prima di un anno.
Di certo, molto presto i provvedimenti di mancata convalida del trattenimento in Albania, impugnati dall’Avvocatura dello Stato, saranno valutati dalla Suprema corte. E tra gli elementi che l’Esecutivo proverà a far valere in Cassazione c’è anche il progressivo “arricchirsi” delle motivazioni che, dopo la prima decisione assunta dai giudici della Capitale, è affiorato nei decreti di altri Tribunali, evidentemente consapevoli di dover rafforzare le basi delle loro decisioni. Ma certo, la Suprema Corte di Cassazione potrebbe ritenere di non potersi spingere fino a valutare simili aspetti, inclusa la carenza di riscontri che l’Avvocatura dello Stato pure contesta ai richiedenti asilo autori dei ricorsi.
E allora: il match decisivo si giocherà alla CgUe, acronimo un po’ sdrucciolevole che indica i giudici europei di stanza a Lussemburgo. A meno che il trasferimento della competenza alle Corti d’appello non favorisca una valutazione sugli aspetti che l’Esecutivo, e il ministro Nordio innanzitutto, ritengono decisivi, a cominciare dalla complessità delle istruttorie che, sulla “sicurezza” di un Paese straniero, solo uno Stato, e i suoi Servizi segreti, possono condurre.
In astratto, non si può escludere nemmeno che l’Italia riesca a concordare, con i partner eurounitari, una clamorosa accelerazione sul “Patto per l’immigrazione e l’asilo”, che dovrebbe essere adottato a luglio 2026. Difficile riuscirci. E perciò la linea del governo è orientata ad andare avanti in ogni caso col modello Albania. Nella convinzione che la tenacia sarà premiata, prima o poi, da un giudice, italiano o europeo.