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Matteo Renzi, senatore di Italia viva e direttore del Riformista
Sequestrando i messaggi Whatsapp e le mail scambiati da Marco Carrai e Vincenzo Manes con il senatore Matteo Renzi, la procura di Firenze ha “menomato” le guarentigie parlamentari del leader di Italia Viva, aggirando la Costituzione. A stabilirlo è la Corte costituzionale, che ieri ha accolto il conflitto di attribuzioni sollevato dal Senato nei confronti della procura fiorentina, rea, secondo Palazzo Madama, di aver acquisito agli atti dell’inchiesta Open «corrispondenza scritta» riguardante Renzi «senza previa autorizzazione del Senato della Repubblica (in quanto mai richiesta), ledendo con ciò l’attribuzione garantita al ricorrente dall’art. 68, terzo comma, della Costituzione».
La Corte non ha invece accolto il ricorso in merito all’acquisizione dell'estratto del conto corrente personale di Renzi, in quanto allegato a segnalazioni di operazioni bancarie provenienti da uffici della Banca d’Italia e non spedito al senatore. Smentito, dunque, l’orientamento prevalente della Cassazione e fatto proprio dalla procura: mail e messaggi rientrano nella nozione di corrispondenza, secondo i giudici, in quanto la loro tutela non si esaurisce con la ricezione del messaggio da parte del destinatario, ma dura fintanto che esso conservi carattere di attualità e interesse per gli interlocutori. Per i pm fiorentini, messaggi e mail già ricevuti e letti vanno considerati “documenti”, sequestrabili, pertanto, senza problemi. Ma per i giudici della Consulta ciò significherebbe azzerare la tutela prevista dagli articoli 15 e 68 della Costituzione, norma, quest’ultima, che «non prefigura un privilegio del singolo parlamentare in quanto tale», ma «una prerogativa «strumentale alla salvaguardia delle funzioni parlamentari», per evitare che intercettazioni e sequestri di corrispondenza possano essere «indebitamente finalizzati ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell’attività». Limitare la prerogativa alle sole comunicazioni in corso di svolgimento e non già concluse, si legge nella sentenza, significherebbe però dare «una interpretazione così restrittiva» delle norme costituzionali da «vanificarne la portata». Un concetto evidenziato anche dalla difesa del Senato, rappresentata dagli avvocati Vinicio Nardo e Giuseppe Morbidelli: diventerebbe infatti semplice, per gli organi inquirenti, «eludere l’obbligo costituzionale di autorizzazione preventiva per acquisire la corrispondenza del parlamentare: anziché captare le comunicazioni nel momento in cui si svolgono, basterebbe attenderne la conclusione (che nel caso dei messaggi elettronici è peraltro pressoché coeva), per poi sequestrare il dispositivo in cui vi è traccia del loro contenuto». E d’altronde, si legge nella sentenza, se già la Cassazione ha stabilito che l’acquisizione dei tabulati gode delle tutele accordate dagli articoli 15 e 68, terzo comma, della Costituzione, «è impensabile che non ne fruisca, invece, il sequestro di messaggi elettronici, anche se già recapitati al destinatario: operazione che consente di venire a conoscenza non soltanto dei dati identificativi estrinseci delle comunicazioni, ma anche del loro contenuto, e dunque di attitudine intrusiva tendenzialmente maggiore».
Mail e messaggi whatsapp, per i giudici costituzionali, sono dunque «del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi» e sostenere il contrario, «in un momento storico nel quale la corrispondenza cartacea, trasmessa tramite il servizio postale e telegrafico, è ormai relegata, nel complesso, a un ruolo di secondo piano, significherebbe d’altronde deprimere radicalmente la valenza della prerogativa parlamentare in questione». D’altronde, anche il quarto comma dell’articolo 616 del codice penale - che regola violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza - già da tempo include espressamente, nel concetto di corrispondenza, anche quella «informatica o telematica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza». Gli organi investigativi - ha dunque precisato la Corte - sono abilitati a disporre il sequestro di “contenitori” di dati informatici appartenenti a terzi, come smartphone, computer o tablet, ma in presenza di messaggi con un parlamentare l'estrazione degli stessi dalla memoria del dispositivo va sospesa e va chiesta l'autorizzazione della Camera di appartenenza. Ciò a prescindere da ogni valutazione circa il carattere “occasionale” o “mirato” dell'acquisizione dei messaggi stessi.
«Avevo fortemente voluto che la vicenda finisse in Corte, non per il processo ma per un punto di principio e di diritto - ha commentato su Twitter Renzi -. Io sostenevo che il comportamento dei pm di Firenze violasse la legge (e la Cassazione ci ha dato ragione cinque volte) e che violasse anche la nostra Costituzione. La Corte costituzionale ha accolto il ricorso, dandoci ragione, e annullato alcuni provvedimenti dei pm di Firenze. Verrà il giorno in cui la classe dirigente del Paese rifletterà serenamente su questa indagine assurda, nata contro di me, contro le persone che mi stanno vicine e soprattutto contro i fatti. Verrà quel giorno ma non è questo. Oggi è solo il giorno del trionfo del diritto. Le indagini dei pm Turco e Nastasi sono state bocciate per cinque volte dalla Corte di Cassazione e adesso anche dalla Corte costituzionale. Dalla parte della legalità ci stiamo noi, non questi due pm. Grazie ai senatori che hanno votato in Aula per sollevare il conflitto sfidando l'opinione pubblica in nome del diritto. E un abbraccio sincero a chi in questi anni mi ha dimostrato il suo affetto e la sua vicinanza: vi voglio bene».