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LA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO GIORGIA MELONI, CARLO NORDIO MINISTRO GIUSTIZIA
Che ci sia agitazione, nel governo, per la guerra fredda in corso con i magistrati, è evidente. Ed è a quelle contraddizioni che si è pensato ieri, quando si è saputo che il Consiglio dei ministri aveva deciso di rinviare il via libera al decreto Giustizia e alla norma che introduce un nuovo illecito disciplinare per i magistrati.
Il provvedimento, messo a punto a via Arenula di concerto con il ministero dell’Economia, non svanisce nel nulla: sarà “deliberato” a Palazzo Chigi di qui a pochi giorni, nella riunione del governo fissata per le 11 di venerdì. Ma la decisione ha aperto un piccolo giallo. Intanto perché fonti di Palazzo Chigi hanno diffuso, sul punto, una spiegazione ben precisa: lo slittamento del Dl Giustizia sarebbe dovuto all’assenza, dal Consiglio dei ministri di oggi, dei rappresentati di Forza Italia a causa di «una serie di impegni» in virtù dei quali il leader azzurro, nonché vicepremier, Antonio Tajani, avrebbe appunto chiesto di posticipare il decreto.
Contemporaneamente, sono circolate voci su una spiegazione meno criptica di questo “rinvio mirato”: Forza Italia avrebbe voluto “tutelarsi”, con lo stop al decreto relativo anche al disciplinare delle toghe, rispetto ad altre partite. In particolare alle trattative in corso sulla Manovra, ancora in discussione nella commissione Bilancio di Montecitorio, e in particolare all’emendamento sostenuto dalla Lega sul canone Rai, emendamento in cui si prevede la proroga di un anno della riduzine da 90 a 70 euro della “tassa” sulla tivù di Stato. Idea che il vertice di maggioranza del fine settimana non è bastato a far digerire a tutti.
Altre fonti di governo chiariscono un aspetto che potrebbe spiegare l’incidente in modo più banale e meno “intrigante”: il rinvio del decreto Giustizia sarebbe stato comunque inevitabile, a prescindere dalle assenze e da eventuali obiezioni di Tajani, perché nel testo andavano perfezionati alcuni aspetti tecnici relativi al commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria.
L’impressione è che vi sia un combinato disposto fra i due aspetti. D’altronde FI e Lega sono ai ferri corti, e questo si riflette anche in una diversa posizione che i due partiti hanno sul rapporto con le toghe. La linea dura nei confronti dei magistrati, e in particolare di coloro che assumono decisioni sui migranti nel quadro di un preciso orientamento culturale, è condivisa dalla Lega e da Fratelli d’Italia, assai meno dagli azzurri. E che sia così, lo confermano altre indiscrezioni, relative proprio alla norma clou del decreto Giustizia, con cui si introduce un nuovo illecito disciplinare per quei magistrati che non obbediscono all’obbligo di astensione introdotto per la sussistenza di “gravi ragioni di convenienza”.
Ebbene, a quanto pare, l’idea di modificare in questo senso il “codice disciplinare delle toghe” non nasce al ministero della Giustizia, ma da un “concerto” fra il Viminale e la Presidenza del Consiglio. Il guardasigilli Carlo Nordio e i suoi uffici si sono limitati a scrivere la norma. Ma a reclamarla sono stati altri. Al ministero dell’Interno c’è un ministro, Matteo Piantedosi, attribuito al Carroccio. E al vertice del governo c’è una premier, Giorgia Meloni, per nulla intenzionata a mollare sui migranti e sulla questione Albania.