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La risposta di Eugenio Scalfari alla domanda malandrina di Floris (“tra Berlusconi e Di Maio chi sceglieresti? ”) ha messo in movimento un vortice di polemiche. Scalfari, come si sa, ha risposto che sceglierebbe Berlusconi, perché il populismo dei 5Stelle è troppo lontano dalla sua idea di democrazia. E in questo modo ha aperto due fronti di furiosa discussione.
Il primo è sulla natura democratica ( o no) del movimento 5Stelle. Il secondo è sullo scontro quasi trentennale tra berlusconiani e antiberlusconiani che sembra ora in parte ricomposto, ma non è chiarissimo perché. Sulla prima questione si può discutere a lungo. Il movimento 5Stelle ha caratteristiche molto diverse e contraddittorie. Al suo interno vive una spinta di rinnovamento, di rivolta contro la burocrazia e contro l’eccesso di potere della politica.
E si esprimono anche delle pulsioni apertamente di sinistra ed egualitarie. Ma il movimento contiene certamente ( ed esprime in modo spesso eclatante) una cultura eversiva, giustizialista, autoritaria, che ha poco a che fare con i princìpi essenziali della democrazia politica e spesso riecheggia vecchie idee e tic tipicamente fascisti. Si capisce che ad un vecchio e grande intellettuale liberale come Scalfari, i 5 stelle appaiano come un rischio drammatico e incombente Che oltretutto fa parte di una minaccia più grande, costituita dal successo che in molte parte d’Europa sta riscuotendo la politica dei populisti, generalmente collocata all’estrema destra: gli ex fascisti di Le Pen, i neonazisti in Austria, in Germania e altrove.
È difficile considerare infondati i timori di Scalfari. L’ipotesi di una vittoria elettorale dei due principali partiti populisti italiani, e cioè i 5 Stelle e la Lega, non è affatto fantasiosa. Ed è molto probabile che una circostanza di questo genere potrebbe essere l’inizio di un collasso vero e proprio del sistema democratico occidentale. È abbastanza naturale che di fronte a una situazione di questo genere uno come Scalfari distingua i nemici “interni” e i nemici “esterni. Vede in Berlusconi un avversario storico, ma che si colloca all’interno del sistema democratico europeo, e dunque lo preferisce a quelli che immagina un po’ – forse esagerando – come i nuovi barbari. Del resto questa posizione del fondatore di Repubblica non è nuovissima. E il giornale dei 5Stelle da tempo l’ha individuata, e da tempo si scaglia pressoché quotidianamente, con ferocia, spesso anche con toni abbastanza volgari, contro il padre nobile del giornalismo italiano. Ieri ha dedicato tutta la prima pagina al tema, pubblicando un grande fotomontaggio nel quale appare un signore con gli occhi di Berlusconi e gli zigomi e la barba di Scalfari. Provo solo a immaginare quanto si scandalizzerebbe “Il Fatto“, e suoi alti lai, se “Repubblica“ pubblicasse a tutta pagina una foto con il volto di Travaglio e la bionda chioma di Marine Le Pen.
La questione più complessa, tuttavia, mi pare sia la seconda. Perché questa ricomposizione di uno scontro che sembrava eterno e irrisolvibile, tra berlusconiani e antiberlusconiani?
Qui, io ho una mia teoria. Si tratta di capire come nacque l’antiberlusconismo, perché diventò così radicale e quale ne fu la sostanza. Ho sempre pensato che l’antiberlusconismo nacque, a metà degli anni novanta, dalla fusione di due fenomeni diversi. Il primo strettamente politico ( e più debole). Il secondo di tipo sociale, molto più forte. L’antiberlusconismo politico ( il più conosciuto e studiato) fu solo la rinascita, a sinistra, di una nuova forma di stalinismo ( meno cruenta, per fortuna). Cioè il riproporsi della necessità di un nemico come “assicurazione“ sulla propria identità. Probabilmente però questa corrente dell’antiberlusconismo non avrebbe retto se non fosse stata sostenuta, alimenta e sospinta da un fenomeno storico molto più robusto: l’antiberlusconismo della borghesia.
Prodotto dalla rottura che Silvio Berlusconi produsse nel monolite della borghesia italiana.
Fino al 1994 la borghesia italiana aveva una sua grande forza culturale e una sua guida certa e indiscutibile: quella del nucleo torinese, che si adunava attorno alla Fiat e alla famiglia Agnelli. Quella borghesia guidava i giornali, la cultura, l’editoria, la televisione e influenzava in modo talvolta opprimente la politica. Aveva una sua linea politica ( che dalla fine degli anni sessanta in poi, dopo l’autunno caldo, fu quella di favorire la collaborazione tra Dc, laici e sinistra) e una grandissima influenza sull’opinione pubblica.
L’irrompere di Berlusconi - prima con le sue Tv, poi con il calcio, poi con la politica al massimo livello - mandò tutto all’aria. E la borghesia torinese, dapprima con sussiego e senso di superiorità, poi con furia e terrore, fece barriera contro il berlusconismo, che individuò come il male dei mali, come il serpente che rischiava di annientare il proprio potere e di cambiare il “marchio“del paese. La verità è che i torinesi persero. Ma non si arresero. E da quel momento furono il vero fulcro e il cervello pensante dell’antiberlusconismo. La sinistra non ha fatto da traino all’antiberlusconismo: si è accodata. Anche perché non aveva la forza politica, e culturale, per contestare questa linea. Se provava a farlo si trovava automaticamente e a sua insaputa sbalzata a destra.
“La Repubblica“ è stata una delle punte di lancia dell’antiberlusconismo borghese. E Eugenio Scalfari, che certamente era ed è una delle menti più lucide di quello schieramento e di quegli ambienti, ha guidato la battaglia dalla prima linea.
Proprio per questo la sua dichiarazione a Floris è molto più importante di quanto non possa sembrare. Non è solo una curiosità. Molto probabilmente è l’annuncio di una pace, che può anche far scandalo ma non ha nulla di innaturale. Berlusconi ha retto a tutti gli attacchi. A ottant’anni suonati è ancora sulla breccia della breccia. I torinesi hanno capito che forse è ora di porre fine a una guerra che è costata cara all’Italia e ha lasciato molte vittime sul terreno.