«Le mie parole sono rivolte soprattutto a Scarpinato che continua a parlare di recenti depistaggi senza citare il libro scritto da me con Guido Ruotolo di cui è protagonista Maurizio Avola, ma facendovi chiaramente riferimento». È Michele Santoro che parla innanzi alla commissione Antimafia presieduta da Chiara Colosimo. È lui stesso che ha richiesto di essere audito, soprattutto dopo una forte campagna condotta da alcuni giornali, megafoni di quell'antimafia - trasformatasi in una vera potente lobby – che da decenni propone una narrativa suggestiva ma che si scontra puntualmente con i fatti.

Santoro ha messo in luce un aspetto cruciale che scardina le ricostruzioni più suggestive: i fatti. E i fatti, come spesso accade quando toccano gli equilibri consolidati, danno particolarmente fastidio. La testimonianza dell'ex pentito catanese Maurizio Avola – un protagonista diretto – ha avuto la colpa di squarciare il velo di una narrazione che, da troppo tempo, cerca di condurre la verità storica della stagione stragista verso altri eterni lidi. L'accusa è diretta: alcuni esponenti dell'Antimafia sembrano più interessati a costruire un racconto di genere fantasy che a fare i conti con la realtà. Una realtà in cui Cosa nostra agiva con una propria autonoma strategia criminale, non come mero strumento nelle mani di apparati occulti dello Stato.

La provocazione di Santoro colpisce nel segno: ridurre la mafia a una semplice propaggine militare significa svuotarla della sua intrinseca forza politica e sociale, negando la complessità di un fenomeno che Giovanni Falcone ha studiato e combattuto con rigore. Un approccio che cancella la capacità di Cosa nostra di essere essa stessa centro decisionale, un'organizzazione con proprie logiche interne e progettualità criminali autonome, con una grande ricchezza economica tanto da comprare – come ricorda Santoro – una intera isola.

L'analisi espressa da Santoro ricorda quella di Falcone quando nei suoi atti sui delitti eccellenti scartò l'ipotesi di una mafia eterodiretta per «l'irriducibile vocazione di Cosa nostra a salvaguardare la propria segretezza e la propria assoluta indipendenza da ogni altro centro di potere esterno». Senza parlare quando disse innanzi al Csm, nelle interviste e anche nel suo ultimo libro “Cose di cosa nostra”: «Magari ci fosse un terzo livello! Basterebbe una sorta di Spectre, basterebbe James Bond per togliercelo di mezzo!». Concetto ribadito pure da Borsellino.

La gravità è che Cosa nostra, in particolare i corleonesi, voleva essere al comando di tutto: riuscivano a infilarsi nella pubblica amministrazione, fare affari con grandi imprese multinazionali, orientando la politica stessa. Lo stesso Falcone, sempre nel suo ultimo libro, scrisse che la ricchezza crescente della mafia «le dà un potere accresciuto, che l'organizzazione cerca di usare per bloccare le indagini».

A tal proposito c'è una nota di colore, ma che fa comprendere la scarsità della conoscenza mafiosa da parte di diversi parlamentari. Il commissario del Pd Walter Verini chiede sostanzialmente a Santoro come possa una mafia contadina commettere stragi da sola e non farsi eterodirigere. La risposta è stata eloquente: «La inviterei a pensare che non tutta Cosa nostra assomiglia a Totò Riina, che, con la sua particolarità dal punto fisico e dell'eloquio, ricorda un contadino. Ma se lei va a vedere processi di mafia, si accorgerà che tanti mafiosi si presentano bene come me o lei. Hanno imprese, sono dei professionisti». Santoro, ricordando che Riina era comunque scaltro e faceva paura anche a Cosa nostra americana, ha snocciolato diverse personalità mafiose, veri “colletti bianchi”. D'altronde basterebbe pensare ai fratelli Buscemi, mafiosi di rango, che entrarono in affari con grandi imprese nazionali, dalla Gardini alla De Eccher di allora.

«Avola – spiega Santoro alla commissione Antimafia - afferma di aver confezionato personalmente l'autobomba e che, in questa circostanza, non erano presenti agenti dei servizi segreti». E aggiunge: «Soprattutto questa affermazione ha scatenato le reazioni di Scarpinato, di Salvatore Borsellino e di altri teorici che li fiancheggiano con giornali e media diversi. Costoro arrivano, a mio parere, a cancellare il ruolo e l'importanza storica di Cosa nostra per ridurre la mafia a una appendice militare, a un gruppo di killer al servizio di pezzi dello Stato o dello Stato tout court». E qui Santoro lancia l'accusa principale: «La Procura di Caltanisetta ha in pratica assunto un atteggiamento simile l loro e, all'uscita del nostro libro, ha stilato un comunicato inusuale ventilando l'ipotesi di un depistaggio di cui sarebbero autori non solo Avola, ma il suo avvocato Ugo Colonna e chi ha scritto il libro. In pratica il libro è stato messo all'indice e considerato notizia di reato».

La denuncia di Santoro si fa ancora più incalzante quando descrive gli sviluppi investigativi seguiti alle dichiarazioni di Avola. Con una serie di passaggi che sollevano inquietanti interrogativi, evidenzia una sequenza di alcuni eventi: Aldo Ercolano, padrino di primo livello accusato da Avola di coinvolgimento nella strage di via D'Amelio, ha immediatamente presentato una denuncia per calunnia. Ne è conseguita un'articolata attività investigativa con intercettazioni, pedinamenti e controlli, che non ha prodotto alcun elemento di smentita. Ma la vera anomalia è questa: nello strano silenzio (di solito si sollevano indignazioni a comando) Ercolano ha ottenuto di uscire dal 41 bis, mentre Marcello D'Agata, consigliere di Nitto Santapaola, ha iniziato a godere di permessi. Parliamo di soggetti che, secondo Avola, hanno partecipato attivamente all'esecuzione della strage di Via D'Amelio.

Santoro denuncia inoltre un altro aspetto inquietante: l'esposizione pubblica di Avola, con la divulgazione di tutti i dettagli della sua nuova vita protetta. Fotografare la sua abitazione, rendere consultabile un fascicolo con informazioni personali, generare allarme nel suo contesto lavorativo e abitativo rappresentano, secondo il giornalista, un'aggressione inaccettabile. Ma soprattutto, teme per la sua vita. «Avola rischia di essere ucciso come un cane, e francamente mi farebbe sentire responsabile come mi sono sentito responsabile con la morte di Libero Grassi», ha detto accoratamente.

A proposito degli interventi dei commissari, è da citare anche quello poco informato di Stefania Ascari del M5S. Sostanzialmente ha chiesto a Santoro se sa spiegarsi perché mafiosi come Brusca, Tranchina o Spatuzza non abbiano mai detto che i catanesi, tra i quali Avola, erano presenti nel compiere l'attentato. Santoro ha risposto spiegando suo malgrado l'ovvio: visto che non erano tra gli esecutori materiali dell'azione esplosiva, come avrebbero potuto smentire o confermare la presenza dei mafiosi catanesi? E soprattutto, visto che è notorio che Riina compartimentasse le azioni di pianificazione ed esecuzione degli attentati, mica c'era stato un appello per vedere se erano tutti presenti.

Ascari riporta poi un atto dell'avvocato Fabio Repici, legale del fratello di Borsellino, che insinuerebbe un collegamento tra l'opportunità lavorativa di Avola e le sue dichiarazioni su Via D'Amelio nel 2020. L'avvocato Colonna, interpellato da Il Dubbio, ribatte che si tratta di affermazioni totalmente false. Il proprietario della società siciliana, con sede in Emilia Romagna, è peraltro noto per le sue denunce antimafia.

Quasi trent'anni fa, l'azienda assunse due dipendenti che allora risultavano incensurati e che solo anni dopo sarebbero stati condannati per mafia. Né l'impresa né l'imprenditore hanno quindi alcun coinvolgimento nella vicenda. Nel 2018 Avola era ancora in carcere e chiedeva come misura alternativa di lavorare presso quell'impresa. Nel 2019 il tribunale di sorveglianza accoglieva l'istanza, ma con la condizione che avesse una dimora vicino al luogo di lavoro. Ci sono state difficoltà nel cercare una casa, ma nel frattempo, a gennaio 2020, Avola veniva scarcerato per fine pena. A quel punto, finalmente libero, ha potuto lavorare. Non c'è alcun nesso, quindi, con le sue dichiarazioni dove si autoaccusa per la strage.