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Questo mese Il Dubbio, in vista del 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ospiterà le testimonianze di donne che hanno vissuto la violenza sulla propria pelle. Una violenza troppo spesso nota alle cronache, vivisezionata per giorni sulle pagine dei giornali e poi puntualmente dimenticata, chiusa in un cassetto, ignorando per sempre gli effetti di quel che è stato. Si dimenticano le ferite, delle donne che ce l’hanno fatta, di quelle che non ce l’hanno fatta e di chi resta: i figli, la famiglia, gli affetti.
«Chiunque abbia una sorella può capire questo strano genere di relazione, che ruota tutto intorno ad uno strano principio di imparzialità. Tu vuoi assolutamente che tua sorella abbia: il tuo stesso quantitativo di bambole, la stessa quantità di matite colorate ( possibilmente consumate fino allo stesso identico punto), la stessa quantità di patatine fritte, lo stesso spicchio di torta al cioccolato, la stessa quantità di trenette al pesto, la stessa quantità di sciroppo per la tosse, la stessa identica dose d’amore e la cosa più importante: la stessa dose di vita!»
(Dal libro di Debora Riccelli, “Nessuno mai potrà + udire la mia voce”, Ed. Nuova Palomar)
Ecco: praticamente questo è ciò che da sempre ho pensato e desiderato fosse per mia sorella. E per me. Amorevolmente poso lo sguardo sulla foto di Santa. Tra me e me rido di gusto, perché riaffiorano alla mente tanti ricordi legati alla nostra infanzia. Santa, la bambina saggia, eppure vivacissima ed estroversa. Scaltra e simpatica, un vulcano in eruzione che carpisce i miei segreti e li spiffera a mamma e papà, ma nello stesso tempo mi protegge, anche se sono nata quattro anni prima di lei.
Mamma l'ha sempre chiamata "la vispa Teresa”, “Ercolina sempre in piedi", per il suo vivace modo di essere, di vivere. Dedita e protesa sempre verso gli altri, di cui coglieva i bisogni e a cui donava senza risparmiarsi. Sognava di fare la dottoressa sin da piccolissima e da sempre ho pensato volesse andar lontano, per amore del suo Gesù che aveva incondizionatamente preso nella sua vita. È una vita ricca e piena d’amore, quella di mia sorella: studia, ha un po’ di tempo per tutti.
Ma a vent’anni, nella sua vita, si infiltra Giuseppe. Giuseppe odia chi ama. Giuseppe soffre di una patologia psichica, non sopporta le donne legate alla Chiesa. La odia come si può odiare un’idea, una fede, e mia sorella è la personificazione di quello che lui vorrebbe vedere sparire dalla faccia della terra. Così inizia a perseguitarla. La minaccia di morte, la pedina. La tempesta di biglietti e lettere. All’epoca le leggi sullo stalking non esistevano: difficile allontanare questo ragazzo.
L’episodio più grave avviene una sera di febbraio del 1989, il giorno del suo compleanno. Probabilmente l’avrebbe violentata se Santa non fosse riuscita a divincolarsi. Anche dopo l’aggressione continuano i messaggi minatori ritrovati sul parabrezza dell’auto. Appostamenti, insulti. Sono tre anni di angoscia per tutta la famiglia. Mamma l’accompagna all’università, papà la sorveglia, gli amici la scortano, mentre tutti noi viviamo nel terrore. Il 15 marzo 1991, Santa sta rientrando con la macchina che le ho prestato. Di solito c’è qualcuno con lei, ma quella sera è sola. Chiude lo sportello, cerca le chiavi del portone nella borsa, pensando che io l’avessi lasciato aperto come sempre. Chissà perché, invece l’ho chiuso e ancora non riesco a darmene pace. Perché sotto quel portone l’aspetta Giuseppe. Ha un coltello in mano, e mentre lei citofona, per farsi aprire, lui la colpisce. Papà sente il campanello, si affaccia, vede, corre, si precipita giù, quasi cade su quelle scale, ma l’assassino non vuole staccarsi dal corpo di Santa, che è già in un lago di sangue. Non smette di colpire, grida: «Devo finire l’opera», e papà con tutte le sue forze lo allontana. Santa è lì, non ha perso coscienza. Però quanto sangue ha perso. Quanto. Sono state tredici le coltellate alla schiena che l’hanno straziata. Troppe per il suo piccolo corpo. Mentre la trasportano al Pronto Soccorso e poi in rianimazione, mia sorella perdona, sì, il suo assassino, ma continua a ripetere: «Ho solo 23 anni, non posso morire così».
C'è un processo di beatificazione in corso per lei, basato sul presunto martirio in odio della fede, e il vaticanista Luigi Accattoli scriverà che Santa Scorese può essere considerata una martire per la dignità della donna. Personalmente ritengo che per ogni donna uccisa dalla cieca violenza di un uomo dovrebbe essere aperto un processo per martirio. «A chi deve sopravvivere» è la dedica di Alessandro Piva, regista del docufilm “Santa Subito” che ha meritato il premio BNL del pubblico alla quattordicesima Festa del cinema di Roma. E per questo insieme a mamma e papà e alla mia famiglia, stemperato il tempo del grande dolore e del distacco, del vuoto e del silenzio, non ho potuto che prendere il ' fagotto' della responsabilità, della testimonianza, l'impegno del non far mancare alla memoria collettiva quella vita spesa con l'amore e portarla sulle mie gambe e con la mia voce, quotidianamente sostenuta dalle amiche operatrici dei CAV di Puglia e non solo, dovunque venga chiesto di conoscerla. Nessun tentennamento, nessuna pigrizia e nessun ostacolo hanno fermato finora l'unità fra Santa e me. A volte la stanchezza, la tristezza si affacciano lungo il cammino, ma la sola idea di donarla a tante persone che con gioia l'accolgono, rende il mio andare più leggero e motivato. È il sentirla sempre accanto che si fa esperienza concreta di vita vissuta. È il piacere di prenderla per le manine come quando era bimba e sostenerla tenendola stretta perché nessuno possa ancora farle male.