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«Se le imputate», le cosiddette ex olgettine, «fossero state correttamente qualificate» come indagate, sui cui c’erano già indizi di reità, «si sarebbe potuto discutere della configurabilità» delle ipotesi di reato di intralcio alla giustizia o di corruzione in atti giudiziari. Tuttavia, «quell’omissione di garanzia ha irrimediabilmente pregiudicato l’operatività di fattispecie di diritto penale sostanziale strettamente connesse con il diritto processuale».
Sono parole durissime quelle che i giudici Tremolada-Gallina-Pucci scrivono contro la procura milanese nelle motivazioni della sentenza Ruby Ter, con la quale lo scorso 17 febbraio hanno assolto tutti e 29 gli imputati, tra i quali Silvio Berlusconi. In parole semplici, le olgettine sarebbero dovute essere sentite non come testimoni assistite e la circostanza di non averlo fatto ha «pregiudicato» l’andamento del procedimento, che si è concluso senza condanne. In quelle 200 pagine di motivazione i giudici hanno chiaramente bacchettato i colleghi pubblici ministeri per aver messo il campo un format investigativo assai diffuso: si convoca gente per farla parlare, sapendo che prima o poi verrà iscritta nel registro delle notizie di reato, ma intanto la si spreme per avere informazioni senza garanzie.
Da molti commentatori la ragione sottesa alla decisione di assolvere Berlusconi era stata bollata come semplice “cavillo”; in realtà le motivazioni spiegano bene che così non è. E già ci anticipò tale interpretazione l’avvocato Valerio Spigarelli, ex presidente dell’Ucpi: il cavillo, in verità, «sarebbe una regola di portata universale per cui se una persona è potenzialmente indagata non può essere qualificata come testimone e ha il diritto di tacere. È questo di cui stanno discutendo nel caso Berlusconi: quando si fecero le indagini sono state interrogate come testimoni delle persone che testimoni non potevano essere, in quanto l’ipotesi che andavano investigando riguardava anche loro responsabilità». Come scrivono infatti i giudici, «non si discute di un mero sofisma, di una rigidità procedurale, di una sottigliezza tecnica priva di contenuti. Tutelare il diritto al silenzio significa assicurare l’effettività della garanzia di un principio che affonda le radici direttamente nel diritto di difesa, costituzionalmente garantito e pietra d’angolo dell’ordinamento giuridico». E ancora: «Le pur legittime esigenze punitive non possono mai indurre ad abdicare alla garanzia di un diritto fondamentale».
La procura di Milano aveva elencato nel processo Ruby ter, quali prove del presunto accordo corruttivo tra l'ex premier Silvio Berlusconi e le olgettine, «elementi che - in forma di indizi - erano già a disposizione dei collegi dei processi cd. Ruby 1 e Ruby 2» e ciò «dimostra», ad avviso dei giudici del tribunale, «che in quei processi quegli elementi potessero e dovessero determinare all'escussione delle imputate come indagate sostanziali», rispetto alle quali non servono prove ma «sono sufficienti indizi del reato».
Ecco un altro importante passaggio delle motivazioni. Le ragazze che avrebbero ricevuto soldi o altre utilità in cambio del silenzio non dovevano essere ascoltate come semplici testimoni, ma come «assistite» e questo «avrebbe evitato un dispendio di attività processuale di fatto rivelatasi inutilizzabile». «Gli elementi per qualificare correttamente le odierne imputate erano negli atti a disposizione dell'autorità giudiziaria già prima che le medesime fossero chiamate a sedere sul banco dei “testimoni”. I due tribunali li valorizzarono nelle sentenze solo al fine di privare in concreto di valore probatorio le dichiarazioni rese, anche in considerazione della ritenuta falsità delle medesime», si aggiunge. «Ma, all'evidenza, non si poteva certo aspettare che il soggetto asseritamente pagato per rendere dichiarazioni false rendesse queste ultime per dimostrare un'indebita interferenza con l'attività processuale di cui già c'erano indizi. Diversamente, come osservato, si finirebbe per realizzare l'obiettivo che le norme sull'incompatibilità a testimoniare intendono scongiurare: costringere taluno ad autoaccusarsi e incriminare il soggetto già impropriamente escusso come testimone per le dichiarazioni rese in una veste che non poteva legittimamente assumere», concludono i giudici.
Il rimprovero dei giudici verso la procura non si ferma qui: «Se fossero state osservate le garanzie collegate all'effettiva veste delle dichiaranti, non si sarebbero disperse energie processuali nell'acquisizione di dichiarazioni da fonti che si sapevano “inquinate” a monte e che, a valle, sono state comunque ritenute sterili ai fini dell'accertamento dei fatti». E poi la stoccata finale: «Tutte le odierne imputate sono state infatti ritenute inattendibili proprio perché contaminate dal più volte evocato “inquinamento probatorio”, come efficacemente denominato dalla sentenza resa all'esito del processo cosiddetto Ruby 2. Senza contare la generazione di un terzo filone processuale, il presente, che non ha potuto fare a meno - diversamente avrebbe tradito l'essenza dello Stato di diritto - di ripristinare quell'ordine di garanzie violato, il tutto con profusione di ulteriori energie processuali che una riflessione sulla posizione processuale delle dichiaranti, prima di escuterle, avrebbe evitato. Si chiude qui l'unica considerazione postuma che questo collegio si è concesso», aggiungono i giudici.
In conclusione, «quanto accaduto nella vicenda processuale oggetto del presente giudizio è paradigmatico del fatto che l'autorità giudiziaria deve assicurare il rispetto nel caso concreto del bilanciamento tra la garanzia dell'individuo e le istanze della collettività di accertamento dei reati, conchiuso nelle norme sullo statuto dei dichiaranti». Intanto i pm di Milano, dopo aver letto con attenzione le motivazioni della sentenza sul caso Ruby ter, valuteranno di ricorrere in appello contro le assoluzioni decise dalla settima penale.