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Il caso Almasri e lo scenario disastroso del Medio Oriente hanno aperto un dibattito su scala globale sul presente e, soprattutto, sul futuro della giustizia internazionale con un eventuale ripensamento degli strumenti messi a disposizione nei decenni passati. L’entusiasmo per costruire un mondo migliore, dopo le mattanze nella Ex Jugoslavia e il Ruanda, con i relativi Tribunali internazionali, ha contribuito alla stesura nel 1998 dello Statuto di Roma.
L’Italia ha dato un contributo importante per creare una Corte chiamata a perseguire i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, il genocidio e l’aggressione. Oggi l’entusiasmo e le speranze della conferenza di Roma sembrano uno sbiadito ricordo. Tutto da rifare? La risposta dovrà pervenire anche dai “grandi della Terra”. Saranno responsabili? Saranno in grado di trovare soluzioni di mediazione o faranno prevalere l’interesse di parte?
La vicenda del torturatore libico Njeem Osama Almasri – trasformatosi da venditore ambulante di polli e volatili in “signore dell’ordine pubblico” -, ha provocato uno scossone con crepe pericolose tra l’Italia e la Corte penale internazionale. Contemporaneamente alle tensioni tra il nostro Paese e i giudici dell’Aia nel dibattito si è inserito il presidente americano Donald Trump nel corso della visita oltreoceano del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, considerato dalla Cpi un criminale di guerra.
Trump ha disconosciuto di nuovo il lavoro dei giudici che lavorano in Olanda e rimarcato una linea per il futuro: prevale la giustizia interna per valutare certi fatti e certe condotte. Alle parole sono seguite le azioni. Il presidente degli Stati Uniti ha emesso un ordine esecutivo che autorizza il congelamento dei beni e il divieto di ingresso per i funzionari dell’Aia e per altri che supportano il lavoro della Corte. Trump ha definito “maligna” la condotta della Cpi per alcune attività svolte contro gli Stati Uniti e contro Israele, “alleato di ferro” di Washington. Tra i Paesi che non riconoscono la giurisdizione della Corte Penale Internazionale, oltre agli Stati Uniti, ci sono, per citarne alcuni, Russia, Israele, Cina, India, Iran, Egitto, Arabia Saudita e Turchia.
L’iniziativa della Casa Bianca apre nuovi scenari e ha indotto l’Aia ad intervenire con una sorta di appello rivolto a chi crede nell’operato della Corte. Le parole utilizzate danno il senso del delicato momento storico. «La Cpi – si legge in una nota - condanna l'emissione da parte degli Stati Uniti di un ordine esecutivo che mira a imporre sanzioni ai suoi funzionari e a danneggiare il suo lavoro giudiziario indipendente e imparziale. La Corte sostiene fermamente il suo personale e si impegna a continuare a fornire giustizia e speranza a milioni di vittime innocenti di atrocità in tutto il mondo, in tutte le situazioni che si presentano. Invitiamo i nostri 125 Stati membri, la società civile e tutte le nazioni del mondo a stare uniti per la giustizia e i diritti umani fondamentali».
Nell’attuale scenario qualcuno ha ipotizzato che la Cpi possa trasformarsi in uno strumento di resa dei conti tra Stati con la possibilità di immaginare un nuovo Tribunale internazionale. A questa ipotesi, però, non crede Marina Castellaneta, professoressa ordinaria di diritto internazionale nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. «Le reazioni di alcuni Stati rispetto all’attività della Corte penale internazionale – dice al Dubbio Castellaneta - non sono una novità. Gli Stati Uniti, già durante il primo mandato di Trump, avevano adottato sanzioni nei confronti dell’allora Procuratrice Bensouda che aveva aperto un fascicolo d’indagine sui crimini commessi in Afghanistan. Così, la reazione della Russia a seguito del mandato di arresto nei confronti di Putin, che si è concretizzata addirittura nell’emissione di mandati di arresto verso i giudici della Pre-Trial Chamber, non sorprende visti i metodi utilizzati in quel Paese verso ogni forma di dissenso. Queste reazioni rendono sicuramente il lavoro della Corte più complesso, considerando che si tratta di due superpotenze che s’ingeriscono nelle attività degli altri Stati, potendo così innescare reazioni negative contro la Cpi. Tuttavia, non credo che la strada possa essere la costituzione di un nuovo tribunale perché la situazione non cambierebbe. Né in questo clima di scontri si può pensare all’istituzione di un tribunale speciale istituito dal Consiglio di sicurezza che sarebbe un passo indietro rispetto alla Corte penale internazionale che ha già svolto un ruolo molto rilevante nella punizione di gravi crimini».
Per quanto riguarda l’Italia, considerato lo scontro con i giudici dell’Aia, l’uscita del nostro Paese dalla Cpi non è realistica. «Non credo sia ipotizzabile – commenta Castellaneta - al di là delle reazioni scomposte di alcuni membri del Governo che hanno addirittura ipotizzato di mettere sotto inchiesta la Corte. Si tratta di reazioni sorprendenti se consideriamo che la Conferenza, che poi ha condotto all’istituzione della Corte penale internazionale, si è svolta a Roma e che l’Italia si è sempre impegnata a supportare la Cpi. Proprio per questo, lo scontro voluto dall’Italia è sconcertante e immotivato».
L’Italia è uno dei pochi Paesi a non avere un codice di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità. «Il ministro della Giustizia – aggiunge la professoressa Castellaneta - aveva annunciato, nel corso di una conferenza a Londra, che sarebbe stato approvato il progetto di codice già pronto, ma nulla è stato fatto. Non penso, però, che sia all’ordine del giorno l’uscita dalla Corte anche perché a quel punto l’Italia sarebbe l’unico Stato membro dell’Ue a non essere parte dello Statuto e anche perché l’Ue ha un accordo di cooperazione con la Corte».
In prospettiva futura Marina Castellaneta auspica un cambio di rotta: «Il limite all’attività della Corte penale internazionale è rappresentato soprattutto dalla violazione degli obblighi di cooperazione da parte di alcuni Stati. La Corte non ha strutture di polizia e, quindi, ad esempio, proprio per l’esecuzione dei mandati di arresto è indispensabile che gli Stati parte cooperino. Un altro limite potrebbe essere costituito dall’impossibilità di svolgere procedimenti in contumacia che impediscono lo svolgimento di un processo se l’imputato non è presente. Tuttavia, vorrei ricordare che dinanzi alla Cpi, per la prima volta nella storia della giustizia penale internazionale, le vittime hanno un ruolo e possono finanche ottenere un indennizzo».