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Giancarlo Pittelli, avvocato penalista del foro di Catanzaro, imputato nel processo "Rinascita Scott"
Dove non arriva la condanna, c’è il giudizio morale. E dove la condanna c’è, come nel caso di Giancarlo Pittelli, l’imputato eccellente del processo Rinascita Scott, la stangata è pazzesca. Sono motivazioni durissime quelle del maxi processo alla ‘ndrangheta vibonese, a sei mesi dalla pronuncia di 207 condanne che rappresentano il primo mattone per dimostrare l’esistenza di una cupola vibonese, unitaria e invischiata con la società civile. Le parole delle giudici contro Pittella, tra i più famosi penalisti calabresi ed ex senatore di Forza Italia, condannato a 11 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, sono pesanti come un macigno. Per lui, passato dal carcere ai domiciliari e poi tornato in libertà dopo un lungo braccio di ferro tra la procura allora guidata da Nicola Gratteri e la difesa (Guido Contestabile, Salvatore Staiano e Gian Domenico Caiazza), la Corte non ha dubbi: sono «numerose - si legge - le vicende che dimostrano la stabile ed effettiva messa a disposizione dell’imputato nei confronti dell’associazione. Il rapporto tra Pittelli e Mancuso (Luigi, ritenuto capo dell’omonimo clan, ndr), infatti, non si riduce ad una confidenzialità inusuale tra avvocato a capo-mafia, superando i limiti dell mera contiguità compiacente, per risolversi nella ripetuta e concreta attivazione dell’imputato a beneficio della consorteria, alla quale fornisce, come si vedrà, uno specifico e consapevole contributo». Una ‘ndrangheta, si legge nelle oltre 3mila pagine di motivazioni, caratterizzata da «un connubio ibrido, un tenebroso sottobosco in cui criminalità organizzata, esponenti della politica e imprenditori non solo convivono a stretto contatto, ma hanno anche delle evidenti cointeressenze ramificate e tentacolari in ogni ambito della società».
Oltre i limiti dell’articolo 24
Stando alla sentenza, non sarebbe stato solo Pittelli «a strumentalizzare la fama criminale del Mancuso per incrementare il suo prestigio professionale e per facilitare alcune speculazioni edilizie», ma anche lo stesso Mancuso si sarebbe avvalso «della rete di relazioni messagli a disposizione dal Pittelli (ora nelle vesti di legale, ora in quelle di politico, ora di vero e proprio faccendiere) per scalare le vette del potere economico malavitoso, calabrese e non solo». Ma non solo: diversi pentiti ascoltati nel corso del processo hanno anche riferito delle entrature di Pittelli «presso i magistrati del distretto di Catanzaro», tali per cui «negli ambienti criminali era fatto notorio che Pittelli fosse in grado di “aggiustare i processi”». La vicinanza di Pittelli a Mancuso, scrivono le giudici, «è stata ampiamente documentata attraverso numerosi incontri riservati con il capomafia» nel periodo in cui il boss era irreperibile. Incontri, per la Corte, finalizzati non solo «solo a trattare questioni inerenti all’espletamento di mandati difensivi», ma anche per consentire a Mancuso di «richiedere al difensore interventi specifici nell’interesse della cosca, di suoi esponenti o di persone che comunque interessavano al capo. Pittelli, dunque, mostrava di essere un valido punto di riferimento per l'associazione, ben oltre il ruolo istituzionale di avvocato, piegando la nobile funzione e le prerogative ad essa riconnesse a fini del tutto eccentrici e illegali. Il diritto di difesa - si legge ancora - è tra quelli al quale l’ordinamento giuridico riconosce il più alto ambito di espansione onde consentire la effettiva attuazione del principio affermato nell’articolo 24 comma secondo della Costituzione: come ogni diritto, però, esso trova un limite nel rispetto delle altre esigenze primarie, tra le quali v’è quella dello Stato ad una corretta amministrazione della giustizia, sicché nella scelta dei metodi e degli strumenti cui il difensore ritiene di fare ricorso per la tutela degli interessi dell'imputato, esiste un limite oggettivo - costituito dall’osservanza di quegli obblighi e di quei divieti espressamente indicati come illeciti penali - oltre il quale anche il comportamento del professionista non sfugge alla sanzione, eccettuati i casi espressamente previsti dalla legge».
Le posizioni di Callipo e Giamborino
Assolto, invece, l’ex sindaco di Pizzo ed ex presidente di Anci Calabria Gianluca Callipo, che però non viene risparmiato completamente nella sentenza. Astro nascente della politica, fu ammanettato, da incensurato, il 19 dicembre del 2019. Le ipotesi di accusa formulate dalla distrettuale antimafia di Catanzaro nei confronti del giovane politico - difeso da Armando Veneto, Clara Veneto e Francesco Gambardella - lo bollano come uno dei “colletti bianchi” a disposizione della criminalità organizzata vibonese, accuse che lo tengono in carcere per sette mesi, prima che la Cassazione sancisca l’infondatezza delle esigenze cautelari. E alla fine, anche per le giudici non ci sarebbe alcuna prova di una messa a disposizione della ‘ndrangheta. Ma dove non arriva il diritto arriva la morale: per la Corte, infatti, sebbene «la valutazione rigorosa degli elementi indicati non consenta di raggiungere (...) la soglia probatoria necessaria ai fini di una pronuncia di condanna», dal materiale probatorio emergerebbe «una condotta tutt’altro che trasparente», dati i contatti e i rapporti «con esponenti della consorteria criminale (...) verosimilmente anche con l'intento di ottenerne il consenso in vista delle consultazioni elettorali». Voti che, però, non si traducono in favori, se è vero, com’è vero, che sono gli stessi esponenti del clan a lamentarsi del disinteresse di Callipo nei confronti delle questioni a loro care. L’incontro di Callipo con un sorvegliato speciale, per la Corte, denota «certamente una vicinanza» del sindaco «agli ambienti criminali». Tuttavia, «la prova all’esito dell’istruttoria dibattimentale appare insufficiente, non avendo consentito di individuare lo specifico e consapevole contributo causale che il Callipo avrebbe fornito alla consorteria e residuando, conseguentemente, il dubbio che la condotta dell'imputato abbia effettivamente superato la soglia della mera contiguità compiacente per concretizzarsi in un concorso nel delitto penalmente rilevante».
Un giudizio simile a quello speso per Pietro Giamborino, ex consigliere regionale vibonese assolto dall’accusa di associazione mafiosa e condannato ad un anno e sei mesi per traffico d’influenze. Politico dalla «condotta torbida», che mostra «intimità» con esponenti della criminalità organizzata, ma per il quale, nel corso dell’istruttoria, non sono emersi elementi concreti per poterlo condannare. Anche se «non è stato individuato lo specifico e consapevole contributo causale che il Giamborino avrebbe apportato alla consorteria», per le giudici è «moralmente discutibile» che avesse a che fare con ambienti criminali, tanto da temere di essere indagato o arrestato, un fatto, per le giudici, sintomatico del suo coinvolgimento in «contesti quantomeno torbidi».