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GIOVANNI TOTI POLITICO
Ci sono, nella disavventura giudiziaria e politica di Giovanni Toti, tre indizi che raccontano uno snodo cruciale del trentennale conflitto tra magistratura e politica nel nostro Paese e che mutano in maniera definitiva il controllo di legalità esercitato dall’azione penale in un controllo di merito orientato alle prescrizioni e agli obiettivi di una ideologia morale. Si tratta di un passaggio sottaciuto, o quantomeno sottovalutato nel dibattito pubblico, ma che è destinato a produrre nel cosiddetto diritto vivente effetti difficilmente sormontabili, capaci di vanificare l’esito delle riforme pure in fieri della custodia cautelare e di accentuare la subalternità del potere politico a quello giudiziario.
Il primo indizio riguarda l’idea che possa darsi corruzione attraverso atti leciti e finanziamenti regolarmente dichiarati dalla politica. Che, cioè, la coesistenza di un vantaggio prodotto da un atto amministrativo a un imprenditore, e il finanziamento dell’imprenditore al politico che l’atto ha emanato o intermediato, rappresenti da sola l’elemento oggettivo del reato. La cui natura di scambio tra prestazioni corrispettive viene dedotta dalla relazione umana tra imprenditore e politico, certificata dalle intercettazioni. Questa relazione è considerata insieme essenza del reato e prova. Che, in una costruzione narrativa del sospetto, piega alla colpevolezza perfino alcune precauzioni di tipo difensivo – come il nascondimento degli smartphone durante gli incontri - messe in atto da una classe dirigente che diffida, temendone non senza fondato motivo, dell’azione della magistratura.
Questo schema interpretativo accusatorio non solo spezza qualunque tassatività dei reati e delle regole processuali, dilatandone i confini su un terreno tipicamente morale, ma instaura un processo alla politica da parte della magistratura, che si sostituisce a quello proprio della democrazia. La mediazione e la risoluzione dei conflitti di interesse diventa così la missione di una giustizia che fa discendere effetti penali da conclusioni morali.
Nella prima ipotesi di reato contestata a Toti, e cioè la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, la tendenza a connotare i fatti della politica con tinte di immoralità trasforma i rapporti economici tra sfera privata e sfera pubblica in spie di mercimoni corruttivi. Nella seconda ipotesi di reato, e cioè la corruzione per l’esercizio della funzione, il fatto stesso evapora nella mera esistenza di una relazione tra l’imprenditore e il politico, facendone allo stesso tempo elemento oggettivo e soggettivo del reato. Il politico «prezzolato», censurabile perché ritenuto dedito a scambi affaristici della propria funzione, diventa una nuova fattispecie. Di cui le intercettazioni forniscono un sintomo assunto come prova.
L’impatto di un simile approccio sul piano delle relazioni civili di una società non è solo l’evanescenza della politica, ma anche il collasso dell’economia. Perché un’impresa dovrà finanziare la politica, se non nella speranza che l’azione di questa, ferma la legittimità degli atti amministrativi, finisca per favorire i suoi interessi? E quale impresa avrà più interesse a finanziare la politica, se dall’attività di questa non potrà ricavare nessun vantaggio senza commettere un reato? Ma la sterilizzazione dei rapporti tra politica e impresa conduce inevitabilmente alla paralisi economica.
Il secondo indizio della disavventura giudiziaria del governatore racconta tutto lo sforzo creativo della magistratura per dare valore cogente a questo paradigma penale/morale, ben oltre il testo della legge. Quando il Riesame di Genova, aderendo in toto alla tesi del pm, motiva la mancata scarcerazione di Toti con la sua incapacità di ammettere il reato, assume l’autocensura morale della propria condotta come l’unica condizione per ritenere insussistente il rischio che il reato si ripeta. Senza ammissione e pentimento, Giovanni Toti conserva intatta la sua tendenza a delinquere. Vuol dire che la sostanza delle norme che disciplinano la custodia cautelare è già divenuta essenzialmente morale, quantomeno nell’interpretazione applicativa che la magistratura ne dà, facendo strame di qualunque presunzione di non colpevolezza.
Come se non bastasse, la potenziale pericolosità dell’indagato è desunta da una presunzione oggettiva connessa al mantenimento della carica. È questo il terzo e ultimo indizio: la persistenza dello status di governatore è condizione ostativa per escludere il rischio di reiterazione del reato. Se Toti non si dimette, la corruzione potrebbe ripetersi. Vuol dire che nell’esercizio stesso della politica c’è una potenzialità criminogena di cui tenere conto nel processo. Ciò serve a legittimare il ruolo di tutela che la magistratura si è autoassegnata, e che senza alcun imbarazzo può essere impiegato come motivazione per giustificare i suoi provvedimenti cautelari. Che riassumono tutte le finalità attribuite un tempo alla pena: la retribuzione, come giusta misura per la colpa morale commessa, la deterrenza che l’esempio proietta nella politica, e la rieducazione che rimette nel circuito civile soggetti ormai consapevoli del disvalore delle proprie condotte. Il giudicato, è il caso di dirlo, è ormai una storia che proprio non riguarda più nessuno.