La scorsa settimana sulle colonne di questo giornale è stata data la notizia dell'archiviazione della denuncia che Piercamillo Davigo aveva presentato confronti del giudice del tribunale di Roma Nicolò Marino.
L'ex presidente dell'Anm si era sentito diffamato per le parole utilizzate dal magistrato romano nella sentenza di proscioglimento della sua segretaria al Csm riguardo la diffusione dei verbali sulla Loggia Ungheria.
In passato anche chi scrive è stato oggetto delle attenzioni di Davigo. L’articolo finito nel mirino di quest’ultimo, prendendo spunto da una sua intervista dell’estate del 2018 al Fatto Quotidiano, si intitolava: "Davigo giudicherà Woodcock ma lo ha già assolto”.
Rispondendo alle domande di Marco Travaglio, Davigo si era dichiarato "esterrefatto” in quanto il Csm all’epoca non aveva difeso il pm anglopartenopeo, colpevole a suo dire di fare indagini ad alti livelli, dagli attacchi della politica. Woodcock in quel momento si trovava sotto procedimento disciplinare per le modalità di conduzione dell'inchiesta Consip.
Nell'articolo si evidenziavano delle “perplessità”, dopo tali affermazioni, sul futuro ruolo di Davigo, appena eletto con un plebiscito al Csm, quale componente della Sezione disciplinare di pizza Indipendenza.
La Procura di Avezzano, dove era stata incardinata la diffamazione, al termine delle indagini chiedeva ed otteneva l’archiviazione di chi scrive. «La valutazione in punto di possibile pregiudizio circa l’imparzialità della decisione presenta i caratteri della rilevanza attenendo ad un caso di interesse pubblico, stante anche le sue implicazioni politiche, della verità, traendo spunto dalle dichiarazioni dello stesso Davigo al Fatto, della continenza, posto che l’articolista si è limitato a dubitare della compatibilità della persona offesa quale giudice disciplinare», si legge nel decreto di archiviazione. Le espressioni utilizzate, prosegue, rientrano poi a pieno titolo nel "diritto di critica".
Non contento, Davigo faceva opposizione, ritenuta dal giudice inammissibile.
Quanto accaduto non può non indurre una seria riflessione sulla ormai non più rinviabile riforma della diffamazione a mezzo stampa.
Il tema di fondo è molto semplice: denunciare il giornalista è a “costo zero”.
Chi denuncia, infatti, non subisce alcuna conseguenza e non affronta spese: È sufficiente recarsi in una caserma dei carabinieri e verbalizzare la denuncia. Per evitare di far perdere tempo al maresciallo di turno, si può presentare per la successiva ratifica la denuncia già scritta.
Discorso ben diverso per il denunciato che deve obbligatoriamente nominare un avvocato e prepararsi alle ingenti spese processuali (oltre allo stress) che nessuno, in caso di assoluzione, risarcirà mai: né il denunciante e né lo Stato.
L'effetto di questo sistema totalmente deresponsabilizzante ha come risultato di intimidire il malcapitato giornalista che non può passare la giornata, invece di scrivere gli articoli, ad organizzare la strategia difensiva con i suoi avvocati.
Il tema è particolarmente sensibile quando si toccano i magistrati, la categoria che denuncia di più in assoluto.
Sul punto è utile riprendere una ricerca, unica nel suo genere, dei professori di diritto Pieremilio Sammarco e Zeno Zencovich che hanno analizzato circa settecento sentenze depositate negli anni 2015/2020 presso il Tribunale civile di Roma.
Nel caso si tratti di magistrati, la domanda viene accolta in ben sette casi su dieci. Esattamente il contrario, dunque tre accoglimenti su dieci, quando il denunciante appartiene ad una qualsiasi altra categoria professionale (giornalista, politico, professore, imprenditore, ecc.). Per quanto concerne invece gli importi risarciti, la media è di circa ventimila euro, esattamente il doppio per le toghe.
«Tutto è rimesso all’apprezzamento discrezionale del giudice: è molto difficile, se non impossibile, stabilire in linea di massima come potrà concludersi una causa risarcitoria per diffamazione», puntualizza Sammarco.
Lo scenario non è dunque esaltante e spiega come siano molto pochi i giornalisti (ed i giornali) che ancora si avventurano nel raccontare ciò che riguarda i magistrati.
Ultimamente molti organi d'informazione sono concentrati sul “bavaglio" imposto dalla legge Cartabia circa la presunzione d'innocenza. Una norma di civiltà che questo giornale ha sempre difeso per evitare che nel tradizionale copia ed incolla degli atti giudiziari l’indagato di turno finisca travolto dalla gogna mediatica. Sarebbe più utile che si iniziasse a ragionare su come arginare il fenomeno delle querele temerarie.