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Non per giustificarla, per carità, rimanendo una reazione a dir poco inopportuna, specie per un “filosofo informatico” com’è il collaboratore di Matteo Salvini che si è assunta la responsabilità della sua diffusione in rete, ma quella fotografia del ministro dell’Interno in maniche di camicia e mitra in mano, pronto a difendersi da quanti «se ne inventano di ogni per fermarlo» - ha scritto il suo dichiarato “amplificatore” Luca Morisi- ha qualcosa a che fare con l’attacco appena sferrato al leader leghista in una intervista a Repubblica dal magistrato Nino Di Matteo.
«I mafiosi capiscono subito su chi poter fare affidamento. La difesa ad oltranza di un indagato per contestazioni di un certo peso potrebbe essere, in questo come in altri casi, un segnale che i poteri criminali apprezzano», ha detto l’ex procuratore aggiunto di Palermo, ora in servizio alla Direzione Nazionale Antimafia, commentando il sostegno ricevuto nel proprio partito dal sottosegretario leghista ai Trasporti Armando Siri. Che è sospettato dalla Procura di Roma di corruzione, per 30 mila euro, avendo cercato di favorire con una modifica legislativa, per quanto inutilmente, una società eolica siciliana posseduta in parte dall’amico esperto di energia Paolo Arata con un imprenditore, Vito Nicastri, sottoposto a provvedimenti restrittivi anche di natura economica per rapporti col capo latitante della mafia Matteo Messina Denaro.
Immediatamente privato delle deleghe dal ministro grillino delle Infrastrutture Danilo Toninelli, il sottosegretario leghista ha negato l’addebito mossogli in base ad una intercettazione allusiva di Arata, esperto di energia per la Lega, ed è stato energicamente difeso da Salvini anche in ordine alle dimissioni reclamate dal vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio ed altri esponenti del Movimento 5 Stelle. Con i quali il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si è impegnato a convocare Siri per un incontro presumibilmente chiarificatore sulla sua permanenza nel governo.
Nino Di Matteo un’idea precisa sulla compatibilità fra Siri e il suo ruolo governativo l’ha già maturata. E in modo decisamente negativo, avendo l’interessato già patteggiato una condanna a un anno e otto mesi scovata negli archivi e denunciata con la solita tempestività da Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano.
«Il reato per cui il sottosegretario è già stato condannato, quello di bancarotta, è oggettivamente rilevante. Mi chiedo come sia stato possibile non prenderlo in considerazione al momento della nomina», ha detto Nino Di Matteo estendendo il suo scetticismo critico, diciamo così, dal leader leghista che aveva proposto Sarti sottosegretario, peraltro dopo avere accarezzato l’idea di farlo diventare ministro, ai colleghi grillini di governo che ne avevano accolto la designazione: a cominciare evidentemente dal presidente del Consiglio Conte e dal vice presidente Luigi Di Maio.
L’affondo di Di Matteo, che ha risparmiato - forse in assenza di domanda da parte dell’intervistatore - il sottosegretario leghista a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti, coinvolto duramente nelle polemiche per avere assunto come consulente al dipartimento economico un figlio di Arata, Federico, prontamente difeso ed elogiato, pure lui, dal leader della Lega che lo conosce personalmente, è stato abbastanza clamoroso.
Non credo che abbia contribuito a trattenere Salvini nelle sue reazioni comprensibilmente stizzite, specie alla vigilia del suo vantato viaggio del 25 aprile in Sicilia per sottolineare il proprio impegno nella lotta alla mafia, il ricordo delle volte in cui Nino Di Matteo fu indicato come possibile ministro della Giustizia in un loro governo dai grillini, fu applauditissimo ad un convegno di Casaleggio ad Ivrea e fu insignito della cittadinanza onoraria di Roma dalla sindaca a cinque stelle Virginia Raggi. Della quale Salvini si sta occupando proprio in questi giorni non certo per elogiarla, d’altronde ricambiato.