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Mi scrive Orianna: «La lotta alla violenza dovrebbe essere collettiva, a tutela di donne, uomini, bambini. Un fenomeno così intenso e disperato contro il genere femminile merita di essere disvelato e guardato con gli occhi di tutti. Per me è un pezzo della mia vita, una storia di stalking e violenze subite, e poi ancora di aule di tribunali dove sentirsi annichilire da un sistema giudiziario che punta il dito, lasciando alla vittima tutto il carico, paradossale, di difendersi dall'accusa di essere vittima, in un crescendo kafkiano che aggiunge violenza alla violenza. Nonostante la Cassazione abbia definitivamente condannato l’autore, e quindi il processo sia concluso (con la mia “assoluzione” e patente di “vittima”), ancora oggi la mia ferita rimane aperta, in una condizione di sospensione e attesa, sempre pronta a slabbrarsi e lasciare uscire qualche goccia di dolore.
Non sono i ricordi a riaprire la ferita, quelli li ho superati e lasciati alle spalle, ma ogni volta che incontro gli occhi di una donna che subisce, che si umilia, che si rassegna, che non trova gli strumenti per poter aprire le sue ali nel mondo, la mia ferita si fa sentire, e lo farà finché ci sarà donna che subisce, per il solo essere donna». Questa vicenda umana e giudiziaria durata tanti anni l’abbiamo vissuta insieme ed io, l’avvocata ( tecnica e donna insieme), ho dovuto faticare per tenere distinti i piani affinché la coscienza critica non fosse obnubilata dagli eventi, dalla rabbia, dal dolore che la partecipazione emotiva ha comportato. E dire che tutto era iniziato in un approccio legale del tutto normale, con una telefonata in cui la donna chiede un appuntamento «per regolamentare l’affidamento di mia figlia minore» .
Si presentata all’appuntamento puntuale, è una donna giovane, con i capelli castani, un viso illuminato da due grandi occhi color nocciola, uno sguardo attento, in un corpo silenziato da un atteggiamento inspiegabilmente dimesso. Nonostante fosse così giovane la vita l’aveva già colpita duramente, aveva perso il marito ed uno dei figli nati dal matrimonio, aveva creduto di potersi rifare una famiglia con un uomo che aveva promesso di occuparsi di lei e della figlia nata dal primo matrimonio ed insieme avevano avuto un’altra bambina che allora aveva 3 anni. Ma le cose non erano andate proprio come lei si era immaginata: lui si era sì occupato di lei, anzi aveva occupato lei, la sua casa, la sua vita e quella delle figlie, aveva praticamente smesso di lavorare. Lei aveva deciso di interrompere quella relazione ma lui viveva dalla madre, a poca distanza, e non aveva smesso di controllarla, di seguirla, non si occupava della figlia ma pretendeva che fosse la madre a portargliela, utilizzava quelle occasioni per avere un contatto fisico, abbracciarla, tentare di baciarla.
Le telefonava a qualunque ora del giorno e della notte, si appostava ovunque andasse, le faceva trovare inquietanti doni notturni sul cancello di casa, rendendole la vita un inferno. Di stalking ancora in Italia non si parlava e solo qualche addetto ai lavori aveva percezione dei suoi effetti devastanti, ma fu chiaro da subito che della bambina al padre non interessava nulla, la bambina era solo il pretesto per arrivare a lei. Inizia anche il procedimento davanti al Tribunale per i minorenni e vengono incaricati i Servizi Sociali di svolgere indagine, relazione e programmare gli incontri della bambina con il papà, ed è ancora una volta Orianna che deve portare al suo persecutore la figlia. La notte Orianna sente passi intorno a casa, ha paura, le consiglio di andare a dormire dai genitori, accoglie il mio suggerimento e chiediamo un ordine di protezione.
La Giudice fissa udienza e propone un percorso di mediazione (ancora non c’era la Convenzione di Istanbul a spiegare con chiarezza che in questi casi la mediazione è vietata): ho dovuto dire che no, non era una strada percorribile. La Giudice, vedendo quanti messaggi e telefonate faceva l’uomo in qualunque ora del giorno e della notte, emette infine l’ordine di protezione. L’ordine di protezione le sembra un salvagente cui aggrapparsi e, per un attimo, Oriana si sente felice. Ma è solo un attimo perché lui non pensa minimamente di rispettarlo, anzi, un mattino presto, mentre lei era passata da casa per fare una lavatrice prima di andare al lavoro, lui era arrivato dal retro ed era riuscito ad entrare, lei aveva cercato di prendere tempo mandando un sms all’amica, ma lui le aveva spento il telefono e l’aveva violentata. L’amica nel frattempo, sopraggiunta, l’aveva trovata così, distrutta, con lui ancora presente in casa, per poi allontanarsi attraverso il bosco sul retro. Portata al Pronto Soccorso, visitata, prelevati i campioni di rito, somministrata la pillola del giorno dopo, riportata a casa, una delle amiche racconta che Oriana era completamente disconnessa. I carabinieri intervenuti scattano le fotografie del luogo, del letto con le coperte manomesse. Colto in flagranza di reato: si direbbe un processo breve, una condanna certa... ma non è stato così.
Il processo inizia, c’è costituzione di parte civile, Orianna rende una testimonianza lucida e chiara, ma il giudice le chiede come mai, avendo paura tanto da recarsi a dormire dai propri genitori, proprio quel mattino fosse passata da casa offrendo a lui, su un piatto d’argento, la possibilità di fare quel che ha fatto. Siamo tutti esterrefatti dalla domanda. Orianna risponde semplicemente che doveva vivere e fare le cose per mandare avanti la famiglia, ma la domanda le rimbomberà per anni nella mente: non è l’uomo che è colpevole per quello che ha fatto ma è la donna che deve dimostrare di aver fatto tutto per impedirlo. Semplicemente assurdo. Vengono richiesti e acquisiti al procedimento faldoni di tabulati da cui emerge il numero di telefonate: oltre 100 al giorno. La difesa dell’imputato nega la violenza, dice che lei gli aveva dato appuntamento, vengono sentiti i testimoni, anche loro hanno paura a testimoniare perché lui denuncia sempre tutti per ogni motivo e non vogliono essere messi in mezzo. Vengono sentiti i carabinieri che hanno fatto gli accertamenti, dicono candidamente che le fotografie non ci sono perché le hanno scattate senza controllare che nella macchina ci fosse il rullino. Vengono sentiti i medici del pronto soccorso e confermano la reazione antalgica della vittima, le difficoltà anche solo a visitarla, ma i vetrini dei prelievi (che da soli avrebbero potuto risolvere il processo) sono andati distrutti. I testimoni, colleghi di lavoro e amiche, confermano che Orianna era distrutta dai pedinamenti, dalle telefonate, una vera persecuzione che durava da mesi.
I testimoni della difesa verranno a dire che l’uomo era una persona simpatica, che lavorava, che frequentemente telefonava perché voleva sapere come stava sua figlia. Cercano di distruggere l’immagine di lei che, nel frattempo ha preso a frequentare un altro uomo. Anche durante il processo continuano gli incontri con i Servizi Sociali, la psicologa spiega che una cosa è la violenza subita dalla madre, altro è il diritto alla bigenitorialità della figlia e alla madre è richiesto di scindere le due cose e accompagnare la figlia ai servizi perché incontri il padre. Naturalmente in tutto questo tempo lui non versa nulla per il mantenimento della figlia e Orianna deve lavorare, sostenere i processi, provvedere alle necessità sue e delle sue due figlie. Così Orianna, che si è ribellata ad una relazione malata, deve lottare contro un sistema giudiziario che le rimprovera di non essere stata capace di evitare la violenza. Dieci anni per arrivare alla condanna definitiva e all’espiazione della pena in carcere, poi altri procedimenti per tentare di recuperare almeno una parte dei soldi spesi e liquidati dal giudice. Nessuna scusa è mai arrivata.