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Sergio Mattarella, presidente della Repubblica
In due giorni il Capo dello Stato ha promulgato due leggi che riguardano la giustizia, ma il senso delle due firme è diametralmente opposto, e non si tratta di un caso ma di un effetto voluto e cercato. Ieri Mattarella ha firmato la legge che cancella l’abuso d’ufficio. Lo ha fatto senza accompagnare il via libera con messaggi di sorta, come molti speravano e altrettanti temevano. Però lo ha fatto letteralmente all’ultimo minuto utile, poche ore prima che scadesse il mese di tempo entro il quale le leggi devono essere promulgate dal Colle. Un ritardo tale da aver suscitato nei giorni scorsi il legittimo sospetto che il presidente intendesse rinviare alle Camere la molto contestata legge.
«Nulla di tutto questo», assicuravano dal Quirinale nei giorni scorsi. Il problema, spiegavano, è solo che dal 10 luglio, giorno dell’approvazione definitiva della legge, a ieri l’agenda del Presidente è stata così fitta di impegni che non c’è stato tempo per apporre quella firma. È probabile che neppure i responsabili della comunicazione del Quirinale volessero davvero far credere a questa versione diplomatica. A incaricarsi di chiarire la situazione, comunque, sono stati i fatti. Ventiquattro ore prima di varare la legge approvata il 10 luglio, Mattarella ha infatti trovato modo di promulgare, giovedì pomeriggio, a strettissimo giro, quella sulle carceri approvata dal Parlamento il giorno precedente. Ma ha voluto differenziare le due firme, e ha rinviato ancora, letteralmente sino all’ultimo momento utile, quella sull’abuso d’ufficio. Il messaggio, ancorché non esplicito e formale, non poteva essere più chiaro.
Sergio Mattarella non ha mai pensato di rinviare la legge sull’abuso alle Camere. Una mossa del genere sarebbe stata in rotta di collisione con le due regole che ispirano sin dall’inizio il suo rapporto con questo governo, una formale e costituzionale, l’altra politica e diplomatica. Il Capo dello Stato ha chiarito più volte nei mesi scorsi, e in modo molto puntiglioso, che non spetta a lui giudicare se una legge è buona o pessima. Il suo compito è solo verificare che sia stata approvata a norma di Costituzione e che non sia macchiata da profili clamorosamente anticostituzionali. Ma il suo intervento, in quest’ultimo caso, può essere dettato solo da manifesta incostituzionalità. Ove invece sussistano dubbi, l’onere della sentenza spetta alla Corte costituzionale, non al Colle. Dunque non gli si deve chiedere di non firmare leggi approvate comunque nel rispetto delle regole, ma neppure si può contrabbandare la sua firma per un’approvazione sostanziale e personale dei contenuti di quella legge.
La motivazione politica è meno confessabile. La stella polare del Presidente è sempre l’interesse del Paese, e Mattarella è convinto che un conflitto aperto tra Presidenza della Repubblica, governo e maggioranza non sia affatto nell’interesse del Paese. Il ritardo voluto, anzi ostentato, è un segnale, un messaggio e soprattutto un monito molto preciso. La decisione di firmare immediatamente il Dl Carceri veicola un messaggio di senso opposto: quello della massima urgenza. Del resto, nel discorso in occasione della cerimonia del Ventaglio, Mattarella ci aveva tenuto a inserire un passaggio particolarmente duro, quasi estraneo al suo stile abituale, proprio sulla tragedia delle carceri, che in tutta evidenza considera un problema di civiltà democratica e di rispetto sostanziale della Costituzione.
Mattarella non è un ingenuo né un politico di poca esperienza. Sa perfettamente che la legge approvata tre giorni fa e subito promulgata non risolve affatto, e anzi non affronta neppure, il vero problema, quello del sovraffollamento e delle condizioni disperate dei detenuti. La firma a stretto giro non va dunque intesa come approvazione convinta del testo ma come ulteriore segnalazione della importanza della questione e sprone a fare di più. Nordio, se potesse muoversi a piacimento, vorrebbe fare molto di più. Pur senza arrivare alla depenalizzazione dei reati minori, intervento non immaginabile con una maggioranza di destra ispirata da una cultura e da una esigenza anche propagandistica securitaria, vorrebbe intervenire sulla carcerazione preventiva di chi è ancora in attesa di giudizio e sulla creazione o sul finanziamento di strutture in grado di ospitare quei detenuti che potrebbero ambire ai domiciliari se disponessero di situazioni abitative tali da permetterlo. Ne ha parlato francamente, proprio mentre la legge veniva votata in una situazione da rodeo in Parlamento, con Giorgia Meloni, e ha dovuto per l’ennesima volta prendere atto dell’impossibilità, in questo momento, di vincere le resistenze di Lega e FdI. Sono due partiti la cui ideologia è securitaria e repressiva, quanto di più distante sia da un vero garantismo che, soprattutto, dall’interesse per soluzioni diverse dalla galera. Sanno che buona parte del loro elettorato, da quel punto di vista, è anche più incarognita e intransigente di loro e non intendono scontentarla. Hanno anche un concreto problema economico: finanziare strutture di ospitalità per i detenuti costa. Nell’arco di alcuni anni, probabilmente, le strutture stesse riuscirebbero a rientrare nelle spese, ma si tratterebbe di un investimento a medio termine mentre le casse sono vuote subito.
La sola possibilità di vincere quelle resistenze è proprio il Quirinale. Per questo Nordio ha annunciato l’intenzione di chiedere un incontro col Presidente, e quasi certamente lo vedrà davvero. Si tratterebbe di una carta molto pesante, perché la premier considera esigenza primaria ripristinare buoni rapporti con il Colle. Ma che possa bastare a vincere il blocco costituito dal fronte securitario interno alla maggioranza è tutt’altro che certo. Anzi, purtroppo, è poco probabile.