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Può essere «indagabile», dunque potrebbe aver bisogno di un avvocato. È con questa eccezione che la testimonianza di Matteo Mossini, psicologo dell’Ausl Montecchio, è stata rinviata, per comprendere se andrà sentito come teste assistito oppure meno. Mossini era stato convocato ieri per essere ascoltato nel processo “Angeli e Demoni”, sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza.
Una posizione delicata, la sua, dal momento che, secondo quanto documentato dalle difese, lo psicologo - inizialmente indagato per tre capi d’accusa e poi archiviato - avrebbe firmato due relazioni accusate di falso per le quali, però, all’epoca il professionista non era stato iscritto sul registro degli indagati, almeno per una di queste. Essendo l’archiviazione un provvedimento revocabile, nel caso di nuove emergenze, le difese hanno chiesto di valutare il suo possibile coinvolgimento per altri due capi d’accusa. Richiesta subito respinta dalla pm Valentina Salvi, che ha escluso la presenza di elementi tali da coinvolgerlo, ma sulla quale il collegio giudicante ha deciso di riservarsi, rinviando a gennaio la testimonianza di Mossini, per valutare se sussistono gli elementi indicati dagli avvocati e, dunque, se sia necessario ascoltarlo in presenza di un legale. Durante le indagini, Mossini aveva dichiarato di non aver partecipato alle relazioni sospettate di falsità e i carabinieri avevano accolto tale ricostruzione, messa in dubbio dalle ultime testimonianze ascoltate in aula e da materiale di intercettazione.
Ascoltato anche il medico legale dell’Asl di Reggio Emilia Maria Stella D’Andrea, che in aula ha negato - come anche altri testimoni - di aver ricevuto pressioni da Federica Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza - difesa da Oliviero Mazza e Rossella Ognibene - e Francesco Monopoli, assistente sociale - difeso da Nicola Canestrini e Giuseppe Sambataro. A lei, dunque, non sarebbe mai arrivata alcuna richiesta per modificare le relazioni, così come ipotizzato dall’accusa, secondo cui i due imputati avrebbero fatto pressioni sui colleghi per orientare i casi sempre e solo sull’abuso sessuale. D’Andrea ha raccontato la sua esperienza di collaborazione con il centro “La Cura”, dove venivano svolte le psicoterapie per i minori, riferendo di aver avuto, inizialmente, buoni rapporti umani e professionali con Anghinolfi, Monopoli e con lo psicoterapeuta Claudio Foti, assolto in abbreviato in appello. Le cose, però, sarebbero cambiate tra il 2016 e il 2017, quando secondo D’Andrea i tre sarebbero diventati troppo “interventisti”.
Un metodo sul quale la professionista non sarebbe stata d’accordo, preferendo vagliare altre opzioni prima di arrivare ad una diagnosi di abuso. Questa obiezione, stando al suo racconto, le sarebbe valsa l’accusa di “negazionismo”. Da qui il progressivo deterioramento dei rapporti in quanto, ha affermato in aula D’Andrea, aveva capito che qualcosa non andava nel “metodo” di cura dei minori. Dai messaggi, però, emergerebbero numerose interazioni con lo psicoterapeuta, nonché quello che secondo le difese si potrebbe definire “coinvolgimento empatico”. D’Andrea si è riferita a Monopoli come «soggetto sopra le righe», senza però ricondurre ciò ad atteggiamenti penalmente rilevanti. E in aula, raccontando i casi seguiti, ha fatto l’esempio di un bambino in comunità, che aveva le unghie talmente incarnite da non riuscire a staccare i calzini dai piedi.
Secondo D’Andrea, Monopoli avrebbe enfatizzato troppo il caso del bambino, “pressando” per farle fare una visita, pur senza segnali tali da far preoccupare. È emerso, però, che il bambino rifiutava di farsi fotografare perché oggetto di foto osé, fatte poi circolare. Tant’è che la vicenda è oggetto di un processo per maltrattamenti. L’esperienza de “La Cura”, però, sarebbe stata positiva, al netto del “metodo”: il centro - i cui locali sono stati assegnati, secondo l’accusa, in violazione di legge dal sindaco Andrea Carletti (difeso da Giovanni Tarquini e Vittorio Manes) alla onlus Hansel e Gretel di Foti -, era un posto accogliente, dove i minori potevano trovare un luogo sicuro in cui trovare una modalità per stare con i propri terapeuti e «la ripeterei». Ma a non starle bene, per una questione ideologica, era la presenza di Foti. In relazione alla presunta setta o meglio rete - di pedofili, D’Andrea ha riferito di aver saputo da Monopoli delle lettere minatorie e di una testa di gallina mozzata rinvenuta sul cofano della sua macchina, evento che aveva suscitato in lui molta preoccupazione. Preoccupazione che emergeva dai racconti dei servizi, che riferivano della presenza, in tale rete, di magistrati e uomini delle forze dell’ordine, precisamente individuati. Mazza ha dunque chiesto chi fossero tali membri della presunta rete di pedofili, ma sul punto D’Andrea non ha saputo riferire con precisione alcuna circostanza. Le difese hanno provato a sollevare la stessa eccezione sollevata per Mossini anche per D’Andrea, dal momento che in un caso di una visita ginecologica considerata violenza privata dall’accusa c’era anche la sua collaborazione. Il collegio ha però rigettato la questione, non ravvisando elementi utili.