PHOTO
Ma come sono andati i fatti, e cosa ci racconta la storia di quegli anni terribili che hanno avuto l’apice massimo tra il 91 e il 93? La trattativa tra gli ex Ros e l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino in che termini si è svolta? Bisogna sempre contestualizzare. A Palermo vigeva da anni un clima di terrore mafioso, acuitosi tra il '91 e il '92. I corleonesi potevano uccidere senza esitare chiunque li contrastasse. Il delirio di onnipotenza di Totò Riina, il suo sentirsi a capo di un'organizzazione che potesse contrastare lo Stato, si aggravò in corrispondenza col periodo di massima repressione giudiziaria (il maxiprocesso imbastito dal pool antimafia, dove spiccavano Falcone e Borsellino) e di rottura dei vecchi equilibri che l’organizzazione mafiosa aveva mantenuto con parte del potere politico.
La mafia, prima di Riina, non era meno feroce, più “moderata”, o addirittura rispettosa di valori. Semplicemente manteneva un rapporto paritario con le altre forze politiche ed economiche. Con l’avvento dei corleonesi (definizione coniata per la prima volta dall’allora generale Antonio Subranni), Cosa nostra ha avuto l’ambizione di sottomettere lo Stato. Due sono state le strategie volute da Riina. Da un lato il versante economico politico attraverso non solo il condizionamento degli appalti pubblici, ma – tramite prestanomi appartenenti a Cosa nostra stessa come i fratelli Buscemi – entrando direttamente in società con grosse imprese nazionali. Non solo. Risulta dagli atti che Riina aveva creato una impresa tutta sua, la Reale, che sarebbe dovuta diventare lo strumento per creare una cerniera tra il mondo mafioso, quello politico e soprattutto l’ imprenditoria di livello nazionale. Sempre Riina aveva avuto l’ambizione, poi fallita, di favorire la secessione della Sicilia tramite un movimento politico, una sorta di Lega del sud, per creare un vero e proprio Stato mafioso.
Non è un caso che soprattutto Giovanni Falcone ha accuratamente spiegato che non esisteva un Terzo livello che eterodirigesse Cosa nostra. La realtà era ancora più complessa e drammatica. Riina voleva stare al di sopra di tutti. Questa era la peculiarità dei corleonesi. E nel contempo ha deciso di trucidare chiunque fosse di intralcio nel suo progetto. Basta riprendere una sua affermazione che fece sia durante le sue chiacchierate intercettate al 41 bis, sia quando fu sentito dall’allora capo procuratore nisseno Sergio Lari: “Se me la facessi con i servizi segreti, non mi chiamerei Totò Riina”. La sua strategia economica, era però accompagnata dal braccio armato. Gli omicidi eccellenti partono dalla sua volontà di neutralizzare chiunque potesse diventare un ostacolo per la sua ambizione “imprenditoriale”.
Non va dimenticato che a Palermo operava la commissione presieduta da Riina, vertice gerarchico di una associazione criminale violentissima e gerarchicamente organizzata su tutto il territorio, che godeva di consenso popolare, con migliaia di adepti e una rete di professionisti e funzionari pubblici collusi. Riina fu uno dei principali responsabili della feroce guerra di mafia protrattasi degli anni '80. Ricordiamo che nella sola Palermo disponeva di squadre di killer permanentemente dedicate ai suoi ordini omicidiari. Ciò era contrastato da un numero di appartenenti alle forze di polizia e di magistrati assolutamente non dimensionato alla gravità che il fenomeno aveva assunto, nel contesto di uno Stato debole. Dopo la strage di Capaci e subito dopo quella di Via D’Amelio ci fu un momento di gravissima crisi dello Stato. Tutto era fermo, la procura di Palermo di allora era gravemente lacerata dai problemi interni, alcune opacità mai del tutto chiarite ancora oggi. Un “nido di vipere”, come definì Paolo Borsellino. Tutti hanno in mente le parole del magistrato Caponnetto: «È finito tutto» disse a un giornalista, uscendo dall'obitorio dopo l'ultimo saluto a Borsellino. In quel frangente, tra le due stragi inaudite ordite dai corleonesi, l’allora generale Mario Mori decise di fare un salto di qualità nelle indagini antimafia.
Per quanto attiene alla ricerca di nuove e più qualificate fonti, l’allora capitano Giuseppe De Donno disse a Mori di aver già indagato su Vito Ciancimino. Si trovava, dunque, in una situazione in cui i Ros pensavano che potesse diventare una buona fonte, anche per i suoi chiari rapporti con Cosa nostra. Così De Donno fu autorizzato da Mori nel tentare di contattarlo. All'epoca di questo fatto, verificatosi nella seconda metà del '92, Ciancimino era già stato condannato dal Tribunale di Palermo alla pena di 10 anni di reclusione per il reato di associazione di stampo mafioso e per corruzione aggravata, e che, in stato di libertà, risiedeva a Roma, in un appartamento di via San Sebastianello, attendendo il verdetto della Corte d'appello e continuando a coltivare i suoi interessi, sempre col supporto dell'assistenza del figlio Massimo. Gli ex Ros Mori e De Donno conoscevano a fondo per ragioni professionali la biografia criminale e le vicende giudiziarie di Ciancimino. Oltretutto il 'caso di don Vito” era di dominio pubblico, anche per essere stato al centro dell'inchiesta della Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia in Sicilia, che nel '72 aveva consegnato i primi risultati del suo lavoro al Parlamento, e sotto i riflettori della stampa, soprattutto negli anni delle indagini di Giovanni Falcone. E fu proprio De Donno, in particolare, che aveva partecipato attivamente a quelle indagini su appalti del comune di Palermo gestiti da don Vito.
Ma in che consistevano questi contatti? La procura di Palermo ne ebbe a conoscenza attraverso la dichiarazione di Ciancimino, resa su sua istanza il 17 marzo del '93 quando si trovava presso il carcere di Rebibbia. Innanzi al procuratore capo Giancarlo Caselli e al sostituto Antonio Ingroia spiegò che, nel corso dell'interlocuzione con Mori e De Donno, dai primi contatti avuti con l'intermediatore 'ambasciatore' dei boss, Antonio Cinà, aveva preso atto della diffidenza e dell'arroganza di questi ultimi e inoltre aveva anche preso atto della chiusura del colonnello Mori verso ogni ipotesi di trattativa finalizzata a delle concessioni ai corleonesi, e pertanto, dopo una pausa di riflessione, aveva deciso di aiutare gli stessi carabinieri alla cattura di Riina, passare il Rubicone e riscattare la sua vita (così si espresse). Ma il suo arresto, il 19 dicembre '92, aveva fatto morire sul nascere la sua collaborazione. Vito Ciancimino dichiarava ai Pm, tra le altre cose, di avere accettato di incontrare allora i carabinieri poiché turbato, sconvolto e sgomento dalle uccisioni di Salvo Lima, dalle stragi in cui avevano perso la vita Falcone e Borsellino e preoccupato delle conseguenze, solo negative, che ciò avrebbero portato alla Sicilia e in ultima analisi a tutta l'Italia.
Già emerse che quella “trattativa” fu un bluff da parte di Mori come raccontò lui stesso quando fu sentito come teste al processo di Firenze sulle stragi continentali. Ma anche Ciancimino nel contempo bluffava. In quel momento pensava, a torto, di poter ottenere qualche beneficio per sé visto che era sotto processo per associazione mafiosa. D’altronde, per comprendere la personalità di Ciancimino basterebbe leggere la nota di Giovanni Falcone del 17 dicembre del 1985 dove sintetizza con semplicità e precisione gli intrighi di cui questi era capace, per incrementare le sue rendite illecite e nascondere la titolarità e la provenienza del suo patrimonio.
L’operazione condotta da Mori e De Donno non era nulla di indicibile. Fu fatta in un momento drammatico. D’altronde i pentiti nascono così. Lo spiegò molto bene l’allora magistrato Guido Lo Forte al Csm nel 1992, quando si riferì alla gestione di Mutolo: “Un collaboratore non viene fuori dal nulla, ma c’è tutta una fase preliminare di contatti, di trattative, che normalmente non sono dei magistrati ma di altri organi”. L’unica pecca è che Ciancimino aveva una personalità per nulla affidabile. E infatti mai divenne collaboratore di giustizia. Ritornando a Totò Riina, alla fine la pagò cara a causa della sua megalomania. Ha voluto fare la guerra allo Stato. E l’ha persa. Dopo di lui, la mafia ritornò a essere quella di prima. Significativa l’intercettazione del 2000 tra Pino Lipari, l’uomo degli appalti, con un suo sodale. Parlano di un summit con Bernardo Provenzano. La discussione fu proprio sul cambio di strategia. Quella della “sommersione”, in maniera tale di agire indisturbati senza destare allarme.
Lipari, infatti, spiega al suo interlocutore: «Gli dissi: 'figlio mio, né tutto si può proteggere, né tutto si può avallare, né tutto si può condividere di quello che è stato fatto! Perché del passato ci sono cose giuste fatte … e cose sbagliate …!'». Ci vengono in aiuto le dichiarazioni di Antonino Giuffrè, corroborate appunto da questa intercettazione. Escusso dai magistrati, spiega che durante il famoso summit, si parlò della gestione degli appalti. «Il discorso appalti era stato affrontato – ha spiegato Giuffrè - e in tutta onestà diciamo che era abbastanza un discorso sempre di attualità e che noi per quanto riguarda il discorso della tangente riuscivamo sempre a controllare abbastanza bene. Ed anche in questo sempre su consiglio di Pino (Lipari, ndr), cercare di non fare rumore cioè alle imprese quando magari c’era qualche impresa di questa che era un pochino tosta, diciamo che non si metteva a posto, di non fare nemmeno rumore, cioè facendo fuoco, danneggiamenti… cioè di muoversi con le scarpe felpate, cercare di non fare, muoversi senza fare rumore». La mafia “rumorosa”, ovvero quella stragista, ha perso trent’anni fa. Il declino è iniziato con la cattura di Riina grazie ai Ros, poi saliti ingiustamente sul banco degli imputati.