Sarà un gruppetto di ottantenni quello che comparirà il 26 settembre davanti a un giudice di Torino per rispondere di fatti di 50 anni fa in un’inchiesta di terrorismo paradossale per tempi e procedure adottate. Occorre riportare la memoria ai tempi delle Brigate Rosse e del loro primo sequestro di persona a scopo finanziamento, il rapimento del re dello spumante Vittorio Vallarino Gancia (morto novantenne due anni fa), il 4 giugno del 1975 e la conclusione tragica dopo un solo giorno, con due morti sul terreno dopo uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine.

L’inchiesta è stata riaperta dalla procura di Torino in seguito a un esposto del 2021 di Bruno D’Alfonso, che era un bambino di dieci anni all’epoca in cui, davanti alla cascina Spiotta dell’alessandrino in cui Vallarini Gancia era tenuto sotto sequestro, il padre Giovanni, appuntato dei carabinieri, era morto insieme a Margherita Cagol, nome di battaglia Mara, capo della colonna piemontese delle Br, che aveva organizzato il sequestro. Un altro brigatista era presente al momento del conflitto a fuoco, ed era riuscito a scappare. Non sarà mai identificato, nonostante le indagini avessero tentato di portare alla sbarra Lauro Azzolini, che però fu assolto da un giudice istruttore, con il vecchio rito, su richiesta del pm, per non aver commesso il fatto, il 3 novembre 1987.

Sono atti giudiziari che non esistono più, perché andarono distrutti nel corso di un allagamento che colpì il tribunale di Alessandria nel 1994 dopo l’esondazione del fiume Tanaro. Il che non ha impedito che quella sentenza sia stata annullata, da magistrati- storiografi che non avevano neppure potuto vederla, in seguito all’esposto di Bruno D’Alfonso. Con procedure “strane”, ricostruite minuziosamente nella memoria dell’avvocato Davide Steccanella, difensore di Azzolini, che si ritrova nuovamente davanti a un giudice, nonostante il principio del “ne bis in idem”, che vieta di essere imputati per un fatto da cui si è già stati assolti. Anche la competenza territoriale ricorda tanto l’elasticità illegittima dei metodi di “Mani Pulite”: perché indaga Torino se i fatti sono accaduti nella provincia di Alessandria?

Per non parlare dell’uso del famoso fascicolo fantasma, quello formalmente contro ignoti, ma che consente di prendere di mira qualcuno senza nominarlo, potendo così dilatare all’infinito i tempi di indagine senza osservarne le regole imposte dal codice di procedura penale. Per non parlare delle intercettazioni e dell’uso del trojan, applicato a Lauro Azzolini e inizialmente a tutti i brigatisti ancora superstiti e considerato dai carabinieri dei Ros “l’unico strumento attraverso il quale è possibile acquisire elementi di prova”. Il tutto mentre l’esponente delle Br è un cittadino già assolto e prima che un giudice abbia disposto la cancellazione di quella sentenza che stabiliva come lui non avesse commesso il fatto. Ma le indagini hanno anche allungato il tiro.

Così, mezzo secolo dopo, si ritroveranno domani davanti a un gip torinese che dovrà decidere sulle richieste di rinvio a giudizio avanzate dalla procura, Lauro Azzolini, 81 anni, accusato di omicidio, insieme a tre coimputati per concorso morale nell’uccisione del brigadiere Giovanni D’Alfonso. Si tratta di Renato Curcio, 82 anni, e dei settantottenni Pierluigi Zuffada e Mario Moretti. Nessuno di loro era presente in quella cascina in quel giorno di mezzo secolo fa. Ma quando le inchieste giudiziarie hanno la pretesa di riscrivere la storia, tutto può succedere.

Gli indizi che la procura ha portato sul tavolo del gip sono molto labili, come è naturale viste le forzature, e più di tipo logico che materiale. C’è in particolare un documento, che era stato scritto ai tempi del fatto da un ignoto militante delle Br, che ricostruisce la dinamica dello scontro a fuoco alla cascina Spiotta. Questo foglio era passato di mano in mano nel corso del tempo, poi era stato ritrovato a Milano in via Maderno, in una base logistica delle Br il 18 gennaio 1976. Sono passati sette mesi dai fatti, e il documento aveva evidentemente fatto molti giri, tanto che tra le diverse tracce ve ne erano anche alcune non utilizzabili.

Ci sono 28 diverse impronte digitali e di queste 11 sono attribuite a Azzolini. Non certo una prova granitica, ma i pm torinesi hanno accolto una suggestione di tipo logico dei periti del Ris, i quali hanno sottolineato come quelle impronte sembrassero intrise di sudore, sintomo di uno stato emotivo. Come se chi aveva tenuto in mano quei fogli dovesse essere colui che li aveva scritti. E di conseguenza colui che quel giorno era presente in quella cascina. E aveva quindi anche sparato e ucciso? Ancora più surreale il preteso coinvolgimento come mandanti morali dei dirigenti delle Br come Curcio e Moretti, sulla base di un altro documento, una sorta di direttiva interna al gruppo terroristico sul comportamento da tenere in caso di accerchiamento da parte delle forze dell’ordine. “Forzatelo”, era la parola d’ordine di quel documento, che era stato pubblicato da un foglio clandestino di propaganda, “Lotta armata per il comunismo”.

Il “concorso morale” avrebbe dovuto inseguire, secondo la logica dei pm torinesi, Curcio e Moretti, in quanto capi autori di direttive ai militanti, in ogni processo nei confronti di ogni singolo brigatista e per ogni singolo fatto. Poi le immancabili intercettazioni, che hanno coinvolto in modo scandaloso e fuori dalle regole anche l’avvocato Davide Steccanella, il difensore di Azzolini. Il brigatista è stato controllato per centinaia di volte tramite il trojan, ancora prima che il gip avesse autorizzato la riapertura delle indagini. E nessuno ha mai smentito le testimonianze delle persone che quel giorno tragico erano presenti alla cascina Spiotta, cioè i tre carabinieri sopravvissuti, il maresciallo Cattafi, l’appuntato Barberis e il tenente Rocca, oltre al sequestrato Vallarino Gancia. Tutti descrivono il brigatista fuggitivo come un uomo di statura sul metro e settanta. Se avessero visto uno come Azzolini, un omone di oltre un metro e novanta, non l’avrebbero dimenticato, visto che a quei tempi la sua era una statura veramente inusuale. Contraddizioni palesi, che l’avvocato Steccanella ha già avuto modo di sottolineare.

Mentre intanto, e anche questo è un po’ scandaloso, a nessuno sembra importare di verificare se sia vero, come ha scritto in una memoria Renato Curcio, che era anche suo marito, che Mara Cagol sia stata finita da un colpo di grazia, mentre si era arresa e stava con le braccia alzate. ”Oggi con l’autopsia in mano- si legge nel documento possiamo avere la certezza che il colpo mortale fu un classico ‘ sotto- ascellare’, da sinistra a destra, che le ha perforato orizzontalmente i due polmoni: colpo mortale e inferto con competenza professionale. Su di ciò non possono esserci più dubbi, come sul fatto che Margherita in quel momento fosse disarmata e le sue mani fossero alzate.

Restano allora senza risposta due domande: chi realmente ha premuto il grilletto? Era necessario? ” Se si deve riscrivere la storia, andrebbero chiariti anche questi particolari, che non sono proprio piccola cosa.