IL PRECEDENTE

Sia pure col pessimismo della ragione, avrebbe detto Antonio Gramsci, o dello storico di professione come riesce a rimanere anche quando scrive da giornalista, temo che Paolo Mieli sia stato facile profeta nel prevedere ieri sul Corriere della Sera che “verrà il momento in cui molti torneranno a domandarsi pubblicamente se vale la pena fare dei sacrifici per gli ucraini. I quali, a ben guardare, se la sono cercata. Si dirà che Zelensky e i suoi - ha scritto l’editorialista- sono responsabili dei torti subiti a causa della protervia con la quale, “sotto insegne naziste” ( Putin), intendevano puntare dei missili contro Mosca e San Pietroburgo. Torneranno a sottolineare, quei molti, che l’impatto delle sanzioni è asimmetrico, nel senso che danneggia l’Italia più di quanto nuoccia agli Stati Unti. E concluderanno che è giunta l’ora di prestar ascolto alle “ragioni dei russi”. Cose già viste e sentite in passato, con altri dittatori, altre asimmetrie e altre “ragioni” dei prepotenti”. Il guaio è che proprio il mio carissimo amico Paolo, nell’onestà del racconto a cui da storico non ha potuto sottrarsi, ha indicato un momento di questa lunga crisi ucraina in cui i conti non sono più tornati al giornalista. O all’osservatore, come preferite. Fu quando, nel 2009, appena eletto presidente degli Stati Uniti, il buon Obama si mise a studiare “la pratica” della possibile adesione della Georgia e dell’Ucraina alla Nato, di cui ora fanno parte ben 15 delle ex Repubbliche sovietiche, e ne andò poi a parlare con Putin direttamente senza litigare, anzi fra fiori e sorrisi, nella reciproca consapevolezza che le cose potessero andare avanti senza scambiarsi addosso missili e persino bombe atomiche, a sentire gli ultimi segnali giunti da Mosca.

Purtroppo dopo quel 2009 di fiori e sorrisi esplose a Kiev nel 2014 la rivoluzione arancione, come l’anno prima era scoppiata in Italia la mezza rivoluzione gialla dei grillini, con il loro sbarco in Parlamento, il tentativo di dettare la formazione del governo, anche se non avevano conquistato ancora la maggioranza relativa, e la pretesa di eleggere in piazza, davanti alla Camera, la buonanima di Stefano Rodotà a presidente della Repubblica, succedendo allo scaduto Giorgio Napolitano.

Qualcuno a Kiev, collega professionale di Beppe Grillo, il signor Volododymir Zelensky, apprezzato sullo schermo nei panni di un presidente onesto come un cristallo, lo seguì superandolo, cioè facendosi eleggere nel 2019 presidente dell’Ucraina. E maneggiò con l’imprudenza, la fantasia, la dabbenaggine e chissà cos’altro di un comico quella specie di bomba atomica che, nella realtà geopolitica del suo Paese, era diventata nel frattempo l’adesione alla Nato. E trasformò Putin, già strano e pericoloso di suo, in un Dracula insaziabile.

Ci sarà magari qualche esagerazione in questa rappresentazione dei fatti, ma di certo i comici in politica sembrano lì per lì baciati dalla fortuna, ma poi deludono: come Guglielmo Giannini proprio in Italia ai suoi tempi.