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Forse la protesta più feroce e duratura è avvenuta al carcere “ La Dozza” di Bologna. È cominciata nel pomeriggio di lunedì, durata tutta la notte, fino a concludersi nel primo pomeriggio di ieri.
I momenti più duri si sono svolti nella notte, quando i reclusi sono dapprima saliti sui tetti appiccando un incendio, poi sono riusciti anche ad incendiare due auto della polizia e una camionetta dei carabinieri. Hanno lanciato di tutto, tanto da ferire un agente della polizia penitenziaria colpendolo con un estintore. Indulto, amnistia, le loro parole d’ordine. Ma la loro preoccupazione più grande è stato il Coronavirus: «Se qui dentro uno si ammala rischiamo di morire tutti», ha urlato un detenuto. Sono accorsi tutti gli agenti penitenziari, anche quelli che non erano in servizio. La trattativa è durata a lungo. Si è recato sul posto il garante regionale Marcello Marighelli e altre figure istituzionali per instaurare una trattativa. Ma decisiva è stata la mediazione portata vanti da Antonietta Fiorillo, la presidente del tribunale di sorveglianza: le richieste sono state relative a misure alternative e incremento dei servizi con operatori. Sarebbe potuto finire molto male, perché per un attimo c’è stato il rischio di una irruzione.
L’ultima spiaggia che avrebbe potuto creare molti più feriti e chissà cos’altro.C’è chi propone la fine dei benefici e soprattutto della sorveglianza dinamica. Eppure la vicenda di Bologna fa capire che è estremamente sbagliata una proposta del genere. Perché? Il carcere in questione è composto da una sezione giudiziaria che riguarda una palazzina di tre piani, mentre il penale è una sezione indipendente dalla giudiziaria che ha degli spazi propri, dove c’è perfino la fabbrica metalmeccanica. Mentre la sezione giudiziaria è un mondo a parte - dove le misure trattamentali sono quasi del tutto inesistenti -, quella penale ha diverse attività e il sistema rieducativo risulta efficace. Non è un caso che i detenuti che vivono in quest’ultima sezione, non hanno partecipato alle violente proteste.
Così come non è un caso che, alla sezione giudiziaria, gli unici che non si sono uniti con gli altri detenuti sono coloro che formano una squadra di rugby.«Siamo distrutti, ci sono stati tanti danni, ma sarebbe pericoloso ritornare indietro», spiega a Il Dubbio Nicola D’Amore, un agente penitenziario del carcere di Bologna. «Il fatto che a disertare le proteste siano stati proprio i detenuti più assistiti attraverso percorsi trattamentali, qualcosa deve pur significare!», riflette sempre D’Amore. L’agente spiega che la sorveglianza dinamica, quella che permette ai detenuti di non essere rinchiusi perennemente nelle celle, diventa utile solo quando la si arricchisce di attività. Ma D’Amore si spinge anche oltre. «Io credo che alcuni segnali debbano essere recepiti. Ad esempio bisognerebbe incentivare i detenuti che mantengono una buona attraverso un incremento della liberazione anticipata, tipo 60 giorni ogni semestre», spiega l’agente penitenziario.Può aprire a numerose riflessioni ciò che ha spiegato a Il Dubbio uno degli agenti che hanno assistito in diretta le proteste dei detenuti. Il carcere può diventare un punto di unione tra la sicurezza e la rieducazione? Può aprire un percorso che proietti le persone verso la libertà? Se è convinto perfino un agente penitenziario che ha subito – assieme ai suoi colleghi - le proteste violente dei detenuti, forse potrebbe convincersi l’intera società.