Il 90 per cento degli atti d’inchiesta del cosiddetto “Qatargate”, il presunto scandalo di corruzione in seno al Parlamento europeo, è opera dei servizi segreti. Sin dal primo atto, datato 1 ottobre 2021, la maggior parte degli indizi raccolti non sono frutto del lavoro della procura, ma un’opera di osservazione e ascolto degli 007 del Belgio e di altri Paesi, arrivati ad introdursi in borghese nell’Europarlamento per controllare le opinioni politiche dei parlamentari.

Ma nonostante questo, il Parlamento europeo si è opposto ad una verifica della regolarità dell’azione dei servizi, chiesta dai legali dell’ex eurodeputato dem Andrea Cozzolino, richiesta sulla quale il Tribunale si pronuncerà il 24 settembre. Il paradosso sta tutto qui: pur essendo parte lesa del procedimento, il Parlamento non vuole accertare se oltre alla presunta corruzione ci sia stata anche una lesione diversa dei suoi principi, con l’uso spregiudicato di un potere talmente invasivo da risultare totalizzante. Una violazione dell’immunità ipotizzata non solo dai difensori degli indagati, ma anche da diversi membri dell’Europarlamento, che hanno tentato di sollevare dubbi circa la regolarità delle indagini.

I legali di Cozzolino sono andati oltre, chiedendo nel corso dell’udienza di martedì direttamente ai giudici l’intervento del cosiddetto “Comitato R”, l’organismo che supervisiona i servizi di sicurezza dello Stato, per verificare che l’azione dei servizi segreti non abbia violato l’immunità parlamentare, così come denunciato più volte dai politici coinvolti. Compresa Eva Kaili, l’ex vicepresidente dell’Europarlamento, che dopo l’arresto del marito Francesco Giorgi è stata “sorvegliata” dagli 007 appostati davanti casa, che sono riusciti dunque ad arrestarla sulla base di una flagranza di reato che secondo i difensori non ci sarebbe nemmeno stata.

L’impressione degli avvocati è, dunque, che i servizi di sicurezza belgi siano stati utilizzati impropriamente per poter condurre delle indagini contro i deputati coperti dall’immunità parlamentare e nei cui confronti, dunque, la procura non avrebbe potuto investigare in maniera ordinaria. Gli avvocati hanno messo sul piatto, tra le altre cose, gli atti, le intercettazioni tra deputati e gli appostamenti davanti casa degli europarlamentari, chiedendo dunque una verifica di quanto accaduto. Qualora il “Comitato R” accertasse delle violazioni, gli atti di indagine diventerebbero automaticamente inutilizzabili e sarebbero espunti dal fascicolo, che a quel punto si ridurrebbe a poche pagine.

Ciò accerterebbe, inoltre, una violazione dell’immunità parlamentare, violazione che lo stesso Parlamento si è rifiutato di valutare, respingendo la richiesta di Kaili. La scelta di rifiutare un controllo di legalità sul ruolo dei servizi segreti ha lasciato di stucco gli indagati presenti in udienza - oltre a Cozzolino erano presenti Niccolò Figà-Talamanca e Francesco Giorgi, nonché il “pentito” Pier Antonio Panzeri - e fa il paio con la decisione di secretare le udienze, respingendo la richiesta degli indagati di rendere tutto pubblico.

Il tutto mentre il Belgio ha scelto, per la seconda volta, di rinunciare a perseguire i presunti corruttori: dopo aver deposto le armi nei confronti del ministro del lavoro del Qatar Ali bin Samikh Al Marri, colui che avrebbe pagato gli eurodeputati per ottenere voti favorevoli alle politiche qatariote in Parlamento, ora gli inquirenti hanno lasciato al Marocco l’onere di valutare se Abderrahim Atmoun, attualmente ambasciatore del Marocco in Polonia, e Mohamed Belharache, funzionario del servizio segreto estero marocchino (la Dged), abbiano corrotto Panzeri, Cozzolino e il loro ex assistente Francesco Giorgi, affinché lavorassero segretamente per conto del Marocco a Bruxelles.

Insomma, sarà il Marocco ad indagare sulla presunta corruzione dello stesso Marocco. Gli inquirenti belgi, infatti, non hanno mai ascoltati i due indagati marocchini fino a dicembre 2023 e il loro interrogatorio è stato possibile solo a condizione che la loro testimonianza fosse raccolta da un magistrato del loro Paese, affiancato sì da agenti di polizia e magistrati belgi, ma con l’obbligo di rimanere in silenzio. Tale decisione sembra rientrare in un’ottica di accordi diplomatici tra i due Paesi: il 15 aprile scorso, infatti, il primo ministro Alexander De Croo, i ministri Annelies Verlinden (Interni), Hadja Lahbib (Esteri), Paul Van Tigchelt (Giustizia) e Nicole de Moor (Asilo e Migrazione) si sono recati a Rabat, dove è stato raggiunto un accordo sul trasferimento in Marocco di circa 700 marocchini senza diritto di soggiorno attualmente detenuti in Belgio.

Il governo marocchino si è dunque impegnato a rimpatriare nel Paese d’origine tutte le persone identificate come di nazionalità marocchina e prive di permesso di soggiorno in Belgio. Per il Segretario di Stato Nicole de Moor si tratta di un «impegno molto chiaro» e di una «forte garanzia» di miglioramento della cooperazione. Ma tale scelta, secondo fonti ministeriali, non avrebbe a che fare con la decisione di rinunciare al troncone marocchino. Nel frattempo continuano le crociate degli indagati contro i divieti imposti dalla procura, tra i quali anche il silenzio, esteso pure agli avvocati, pena l’arresto.

I giudici hanno già annullato tale obbligo per Kaili e per l’eurodeputato belga Marc Tarabella, mentre nel caso di Giorgi la strada è stata più tortuosa: il 20 marzo, la difesa dell’ex assistente europarlamentare ha depositato la propria opposizione alle limitazioni imposte il 6 febbraio. Il giorno successivo, però, la giudice istruttrice Aurélie Dejaffe - che ha sostituito il collega Michel Claise dopo che proprio la difesa di Tarabella aveva svelato il rapporto di affari tra suo figlio e quello dell’eurodeputata Maria Arena, indagata solo dopo diversi mesi - ha deciso di anticipare la sentenza, emettendo una nuova ordinanza per reiterare gli stessi divieti.

Il Tribunale e la Corte d’appello avevano dato torto a Giorgi, ma la Cassazione, nei giorni scorsi, ha stabilito che l’emanazione, da parte del gip, di una nuova ordinanza che estende le condizioni non fa venir meno l’oggetto della richiesta di revoca già avanzata da Giorgi. «Stabilendo diversamente - si legge nella decisione -, i giudici d’appello non hanno motivato giuridicamente la loro decisione», motivo per cui il ricorso va rivalutato. La decisione è attesa per il 24 giugno. Ma intanto la distopia del Qatargate va avanti.