Se siamo abituati a nomi altisonanti per ricordare le inchieste, anche le date hanno un loro perché. E non dev’essere stato un caso, dunque, se gli arresti del Qatargate, il presunto scandalo internazionale che doveva far cadere il Parlamento europeo, sono avvenuti proprio il 9 dicembre, giornata internazionale contro la corruzione. Una scelta di tempi e parole che non dev’essere parsa casuale soprattutto agli indagati, i cui nomi e volti sono finiti sui giornali di tutto il mondo soprattutto grazie alla presenza, tra gli arrestati, della vicepresidente del Parlamento europeo: Eva Kaili. Due anni dopo quella che doveva essere la più grossa indagine che l’Europa avrebbe mai ricordato, del grande scandalo rimangono briciole. O meglio, lo scandalo sta soprattutto nelle modalità con le quali la stessa inchiesta è stata condotta, con 40 scatoloni di prove rimaste sconosciute per oltre un anno, servizi segreti liberi di intercettare parlamentari coperti da immunità, poliziotti in incognito nell’Europarlamento e il principale investigatore registrato mentre fa a pezzi la credibilità del pentito. Una vicenda che ha avuto lunga vita sui media, amplificata laddove la fonte era la procura e col volume ridotto a zero, invece, quando la parola doveva passare agli indagati. Che sono stati a lungo zittiti, con tanto di ordinanza di un Tribunale che ha messo il bavaglio pure agli avvocati. Tutto legittimo in un sistema giudiziario, come quello belga, dove si può rimanere in custodia cautelare a tempo indeterminato, senza prove, in attesa di trovarne qualcuna, in celle che fanno impallidire pure il cosiddetto terzo mondo.

La narrazione che ha caratterizzato il Qatargate è stata devastante: veline su veline contenenti pure bugie, come quella secondo cui Francesco Giorgi, ex assistente parlamentare del super pentito Antonio Panzeri, avrebbe accusato la moglie Kaili, di fatto confermando i sospetti su di lei. Tutto falso: Giorgi aveva solo accusato se stesso sotto la minaccia di non rivedere più la figlia. Ma da quella stanza in cui erano presenti soltanto giudici, magistrati, avvocati e indagati la notizia è finita sulle prime pagine di tutti i giornali in un altro modo: Giorgi, per tutti, aveva venduto sua moglie agli inquirenti. «Mi sono preso colpe che non avevo per proteggere mia figlia. Scrissero, invece, che avevo accusato mia moglie. Ma non era la verità, cercavano solo in ogni mezzo per farmi patteggiare», spiega.

Due anni dopo, la sicumera di chi, in quei mesi, li aveva già dati per spacciati sembra essere sparita. E ora, pian piano, anche la versione degli indagati comincia a trovare spazio sui giornali. Come i dubbi che le indagini non siano state proprio trasparenti, come più volte abbiamo scritto su questo giornale. «In alcuni momenti - racconta Giorgi al Dubbio - mi è sembrato di essere il signor K del Processo di Kafka: accusato, arrestato, senza capirne il motivo ma e poi tutti quelli che si fregiavano con

questa inchiesta, alla fine, hanno abbandonato la nave. Questo è un dato di fatto». Giorgi parla del giudice Michel Claise, il Di Pietro belga, che ha lasciato l’inchiesta per i suoi legami con un’eurodeputata rimasta fuori dalle indagini a lungo, nonostante il suo nome ricorresse spesso, e poi candidato in politica; e il procuratore federale, Raphael Malagnini, che ha lasciato l’inchiesta del secolo per andare a lavorare a Liegi. Due anni di silenzi hanno contribuito a far sedimentare l’idea che il Qatargate fosse ciò che era stato raccontato. Senza una stampa davvero libera, interessata ad approfondire le tante stranezze che pure balzavano agli occhi. «Per me, sono stati anni di riflessione, studio, preparazione - aggiunge Giorgi -. In un certo senso, è stato necessario conoscere a fondo la situazione e cercare un nuovo equilibrio, sia personale sia familiare. E il momento decisivo è arrivato quando ci hanno tolto il bavaglio, a luglio di quest’anno. Ho fiducia nel lavoro della Corte di Appello, che ha accolto la nostra richiesta di verifica delle violazioni in questa indagine».

Quel silenzio ha però contribuito a mettere in ombra la versione delle difese. «Quando sei in mare durante una tempesta - spiega ancora -, non puoi contrastarla, ma solo attraversarla, sistemare le vele e aspettare che passi. La stessa cosa è accaduta con questa inchiesta. Dopo due anni, la tempesta mediatica è passata e ora finalmente il vento sta soffiando nella giusta direzione. Non è stato facile stare in silenzio sapendo molte delle cose che sono emerse solo recentemente». Come l’audio nel quale Ceferino Alvarez Rodriguez, l’ispettore a capo dell’indagine, smonta, appunto, la credibilità della stessa affermando che Panzeri mente. L’ispettore si era difeso tirando in ballo l’intelligenza artificiale: l’audio è finto, aveva detto, salvo poi smentirsi quando ha tentato, inutilmente, di imbavagliare la stampa. Ma la veridicità di quella registrazione è stata dimostrata grazie ad un’inedita consulenza informatica e fonica forense elaborata con tecnologie innovative da Gabriele Pitzianti, specializzato in digital forensics e nominato in diversi prestigiosi incarichi istituzionali da Tribunali e Procure della Repubblica di tutta Italia. Tutta roba che avrebbe fatto impallidire i cronisti, se solo avessero saputo. Ma col tempo anche l’indignazione e il gusto per lo scoop si sono affievoliti, contrariamente a quei giorni. «Appena un’ora dopo il mio arresto - spiega Giorgi -, c’erano già dettagli online, mentre io non sapevo ancora perché fossi lì. L’ho scoperto solo dai giornali, non dalla polizia. Il mio avvocato si è presentato con un articolo, perché nemmeno lui sapeva cosa stesse succedendo. Ora è arrivato il momento di chiarire la verità». Alla quale potrà dare un contributo il Comitato R - il Copasir belga - chiamato a pronunciarsi sull’operato dei Servizi.