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«Le mie parole hanno un’unica “responsabilità”. Quella di voler esprimere e contenere, a salvaguardia della mia persona e del mio ruolo istituzionale, esclusivamente il mio dolore». Poco prima della sentenza con la quale la sezione disciplinare del Csm l’ha censurata per i messaggi inviata a Luca Palamara, la pm Alessia Sinatra ha provato a dare forma ai propri sentimenti e alle proprie ragioni, ripercorrendo con fatica il dolore provato dopo il 12 dicembre 2015. Ovvero dopo essere stata molestata dall’allora procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo nel corridoio di un albergo, dove i due si trovavano alla vigilia di una riunione del comitato direttivo centrale dell’Anm, di cui entrambi facevano parte.
Un episodio per il quale il magistrato è stato punito dal Csm con la perdita di due mesi di anzianità, ma che è costato una punizione anche alla vittima. E ciò per aver scritto a Palamara messaggi carichi di disprezzo nei confronti dell’ex amico, augurandosi che la poltrona della procura di Roma - per la quale in quel momento Creazzo correva - gli fosse negata. Astio, risentimento, volontà di vedere “punito” - dal destino - chi le aveva procurato dolore. Ma non per il Csm, che in quegli scambi ha intravisto un tentativo di mettere materialmente i bastoni tra le ruote al percorso professionale del magistrato, che a Roma non ci arrivò mai. La decisione - una delle prime del nuovo Csm - ha già suscitato critiche anche al di fuori della magistratura, arrivando fino ai banchi del Parlamento, dove si parla di «segnale preoccupante» per la lotta contro la violenza sulle donne, come evidenziato dalla presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio Valeria Valente (Pd). Ma è anche il punto di vista «tecnico» a suscitare dubbi.
«È una decisione che appare del tutto infondata - spiega al Dubbio Mario Serio, difensore di Sinatra davanti alla sezione disciplinare -. Manca qualunque volontà di influire negativamente sul concorso per la procura di Roma da parte della mia assistita: è evidentissimo che si trattava di uno sfogo intimo destinato a rimanere nella sfera privata, senza alcuna possibilità di divulgazione. Uno sfogo con una delle prime persone, Palamara, con la quale l’interessata, praticamente nell’immediatezza dell’aggressione, si era confidata». Ma anche dal punto di vista oggettivo, secondo Serio, la decisione sarebbe «incomprensibile». Non solo perché Palamara, all’epoca, non era più consigliere del Csm, ma anche perché non aveva dato alcuna rassicurazione o millantato la possibilità di intervenire. «Noi avevamo un fatto privato - ha aggiunto Serio - che è stato considerato capace di sovvertire gli equilibri costituzionali, cosa assolutamente priva di agganci con la realtà. Ma c’è di più: c’è da chiedersi - in un momento in cui si discute sulla legittimità di intercettazioni o captazioni di natura privata e intima -, perché la procura di Perugia abbia divulgato, trasmettendole al Csm, chat e messaggi completamente privi di rilevanza penale nel procedimento contro Palamara. Quel materiale sarebbe dovuto rimanere in archivio, proprio perché lesivo della riservatezza delle persone».
Era stata la stessa procura di Perugia, in un primo momento, a negare all’Anm le chat di Palamara, proprio in ragione della delicatezza - in termini di privacy - delle stesse. «Perché poi ha cambiato idea? - si è chiesto Serio - Perché le ha divulgate, trattandosi di atti che non avevano alcuna possibilità di circolazione, al di fuori del procedimento penale, per il quale peraltro erano irrilevanti? C’è un tema politico molto importante. Non è vero che un abuso delle intercettazioni o delle captazioni sia innocuo: ci sono dei casi in cui è particolarmente nocivo e sono i casi in cui non viene fatto un buon governo delle regole di riservatezza da parte dell’autorità inquirente».
Sinatra aveva deciso, dopo una riflessione travagliata, di non rivolgersi all’autorità giudiziaria. Ma il palamaragate e la diffusione illimitata delle chat dell’ex presidente dell’Anm hanno travolto la sua vita intima, diventata in pochi attimi di pubblico dominio. Sulla veridicità storica del fatto, ha sottolineato Serio, non ci sono dubbi, data la sentenza passata in giudicato con la quale Creazzo è stato condannato dalla sezione disciplinare. Una sentenza che «esplicitamente dichiara non soltanto vero, ma pienamente riscontrato il racconto della mia assistita». La decisione di martedì, dunque, «è solo frutto di una totale mancanza di sensibilità umana nei confronti del dramma vissuto da un magistrato. Si è preferito valorizzare in senso punitivo le chat di Palamara rispetto ad un fatto dilaniante - ha aggiunto il legale -. Chat che vengono utilizzate in modo diverso a seconda delle circostanze: alcuni magistrati non sono stati nemmeno perseguiti, inspiegabilmente. Ed è molto grave che si sia arrivati a questa condanna, che sebbene emessa da un collegio del quale facevano parte tre donne, delle quali due magistrate, riflette una concezione tipicamente maschilista dei rapporti di lavoro, secondo cui sostanzialmente ad un maschio si perdona tutto. Come si può conciliare questa pronuncia con l’esistenza di un comitato pari opportunità presso il Csm, di cui ha fatto parte fino a poco tempo fa la mia assistita?». Insomma, servirebbe un “me too” della magistratura, secondo Serio.
A giudicare Sinatra non sono stati i consiglieri che hanno effettuato l’istruttoria, bensì i neo eletti. Che senza riascoltare i testimoni, in un’unica seduta, hanno scelto di acquisire il materiale prodotto senza alcun contradditorio e pronunciarsi, respingendo anche la richiesta di assoluzione del procuratore generale. «Un esordio peggiore non poteva esserci - ha concluso l’avvocato -. Sarebbe bastato ascoltare le parole della mia assistita, mai smentite da elementi esterni, per comprendere come non vi fosse alcuna voglia di giustizia privata. Se la mia assistita avesse avuto il potere, attraverso le interlocuzioni con Palamara, di intervenire sull'attività consiliare, perché non ha chiesto qualcosa per sé? Avrebbe agito solo per procurare un danno a terzi? Era uno sfogo destinato a rimanere tra le due persone che si parlavano. E si trattava di fatti di quattro anni addietro, totalmente travolti dalla storia successiva, per cui era anche un procedimento inattuale. E pone, a mio avviso, un serio problema di legittimazione della sezione disciplinare».