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Pur senza aver mai sventolato l’agenda del premier in campagna elettorale, la leader di FdI punta tutto sulla continuità con l’ex Bce per rassicurare l’Europa e il Quirinale
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In campagna elettorale non la ha praticamente mai citata e figurarsi se proprio lei, unica leader all'opposizione del governo Draghi, avrebbe mai potuto impugnare la famigerata “agenda”. È lecito però sospettare che quell' “agenda Draghi” Giorgia Meloni se la sia in compenso studiata pagina per pagina. Ieri palazzo Chigi ha smentito le indiscrezioni su un patto fra Draghi e Meloni in base al quale il premier uscente si sarebbe impegnato a garantire per la leader FdI nelle cancellerie internazionali. La smentita in sé però significa poco. Non solo perché doverosa e inevitabile ma anche perché, se l'idea del patto segreto è improbabile, l'eventualità di una convergenza di fatto è invece del tutto plausibile. Che i due si siano sentiti un paio di volte al telefono è certo. Le 3 condizioni, stando all'articolo smentito, che il premier avrebbe posto sono tanto ovvie da non aver neppure bisogno di essere esplicitate: prosecuzione nel sostegno all'Ucraina, fedeltà alla Nato, difesa dei conti pubblici evitando lo scostamento di bilancio. I primi due punti sono per la sorella tricolore fermissimi senza bisogno di Draghi. Sul terzo potrebbero esserci maggiori problemi ma Meloni è tanto decisa a evitare lo scostamento quanto lo è stato Draghi. Anche se né lei né lo stesso ex presidente della Bce ( se fosse rimasto a Chigi) possono escludere di dover ricorrere al debito. Ma per entrambi si tratta davvero di una extrema ratio.
Ma l'adeguamento della vincitrice al modello del suo predecessore va ben oltre l'essenzialità scarna delle tre presunte “condizioni”. Questione di stile prima di tutto. La scelta di non parlare dopo il trionfo, mantenendo un operoso silenzio corrisponde alla scelta di diffondere un'immagine “seria” attenta solo alla sostanza e per nulla all'apparenza e all'immagine tipica di un autorevole premier tecnica come Draghi ma del tutto anomala per chi guida un partito. Nulla a che vedere con i proclami che accompagnarono la vittoria dei 5S e della Lega nel 2018. Questione di metodo, poi. L'ispirazione di fondo resta tutto, ovvio, ma nei fatti, poi, la “Sorellissima” sembra invece ispirarsi al pragmatismo che del metodo Draghi è la chiave: si fa quel che si può quando si può, senza mai perdere di vista i limiti imposti dalla realtà e dalla realpolitik. Quei limiti, per esempio, impongono di procedere con il piede sul freno a tavoletta nella prossima manovra. Non ci sarà spazio per nessuna promessa mirabolante. La futura premier intende limitarsi a un intervento necessario sul cuneo fiscale e non vorrebbe concedere a Salvini altro se non l'innalzamento del tetto per la Flat Tax degli autonomi da 65mila a 100mila euro l'anno. Poca roba e soprattutto poco esborso. La situazione è quella che ha certificato ieri la Nadef. La crescita rallenta, il deficit previsto sale. Azzardare di più significherebbe entrare in rotta di collisione con la Ue e Giorgia la Sovranista vuole evitarlo a ogni costo.
Identica disposizione trapela nella partita della composizione del governo. Strada sbarrata per Salvini al Colle: Mattarella non apprezzerebbe, forse non accetterebbe. Di Tremonti all'Economia non se ne parla: a Bruxelles e Francoforte salterebbero sulle sedie. I nomi che circolano in compenso, da Panetta che sarebbe di gran lunga il preferito ma non intende rinunciare alla guida di Bankitalia, a Siniscalco a Rivera hanno tutti un elemento in comune: garantirebbero continuità con il governo Draghi e ne sarebbero prova vivente per Ue e Bce. Senza contare la tentazione di marcare quella continuità lasciando nel ministero chiave della Transizione energetica Cingolani. Berlusconi presidente del Senato, dato e non concesso che il Cavaliere avanzi la propria candidatura, sarebbe fuori luogo. La premier vuole inviare segnali di pace e Silvio secondo cittadino dello Stato non lo sarebbe.
C'è un elemento comune in più fra il Draghi premier e la sua peraltro molto benevola oppositrice. Su un punto solo, nella composizione della squadra, Giorgia sembra irremovibile: blindare palazzo Chigi con i suoi fedelissimi. Perché, proprio come nell'era Draghi, il timone e il bastone del comando devono stare e rimanere solo lì.