PHOTO
LaPresse
È ancora lei, la legge 40 del 2004, a finire nelle mani dei giudici costituzionali. I quali, negli ultimi vent’anni, hanno cancellato un divieto dopo l’altro molti dei limiti imposti dalla norma che disciplina la procreazione medicalmente assistita (PMA) in Italia. Ora alla Consulta si chiede di aggiungere un nuovo tassello per affermare il diritto delle donne single a diventare madri, rimuovendo l’ostacolo previsto dall’articolo 5 della legge, che consente l’accesso alle tecniche riproduttive soltanto alle coppie di sesso diverso, stabilmente conviventi o sposate.
La battaglia è arrivata oggi davanti alla Corte, in udienza pubblica, alla presenza di un collegio difensivo tutto al femminile, relatrice la giudice Emanuela Navarretta, e ancora una donna, l’avvocata Wally Ferrante, a rappresentare l’Avvocatura dello Stato. La Consulta è chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità sollevata dal tribunale di Firenze, secondo il quale l’articolo 5 porrebbe “plurimi profili di incostituzionalità” e violerebbe diversi principi costituzionali, quali quelli sanciti dagli articoli 2, 3, 13, 32 e 117, primo comma, della Carta (quest’ultimo in relazione ad alcuni articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo).
«L’esclusione delle donne single costituisce una violazione dei principi di uguaglianza, di autodeterminazione, di non discriminazione», ha argomentato Filomena Gallo, avvocata del team legale dell’Associazione Luca Coscioni. Che con le colleghe presenti in udienza, Maria Elisa D’amico, Benedetta Liberali e Paola Stringa, ha chiesto di dichiarare illegittima quella norma. «In questi 20 anni, da quando la legge è entrata in vigore, la Corte è intervenuta per ripristinare la legalità costituzionale, cambiando i profili e gli effetti della norma con 5 interventi di incostituzionalità. Gli effetti delle pronunce della Corte sono reali: circa 14mila bambini nascono ogni anno grazie alle tecniche di fecondazione assistita», ha sottolineato Gallo. Per la quale, alla base della genitorialità bisogna porre l’assunzione di responsabilità, che prescinde dal legame biologico con il nato e dallo stato civile ed economico della donna che sceglie e prova a diventare madre.
Il procedimento davanti alla Corte scaturisce dal caso di Evita, 40enne di Torino che si è rivolta al giudice dopo che la sua richiesta di poter accedere alla fecondazione eterologa è stata respinta da un centro medico in Toscana. Come tante donne, Evita è stata costretta a recarsi all’estero, ha ricordato Gallo, secondo la quale la cancellazione del divieto non determinerebbe alcun vuoto normativo «perché si estenderebbero in automatico le norme già in vigore e già applicate» dal 2014 sulla fecondazione eterologa in casi di sterilità o patologie genetiche gravi.
Si tratta dei requisiti oggettivi previsti dall’articolo 4 ed estesi dalla stessa Consulta, che secondo il collegio difensivo avrebbe aperto ai percorsi per le donne single con la sentenza n. 161 del 2023 sul divieto di revoca del consenso dopo la fecondazione dell’ovulo. «Questo governo vuole dare una fotografia dell’Italia dove ci sono solo famiglie composte da uomo-donna, possibilmente in buona salute. La realtà è un’altra: secondo i dati dell’Istat, il 25 per cento delle famiglie sono monogenitoriali», ha sottolineato Gallo a margine dell’udienza. Offrendo così un quadro molto diverso da quello proposto dall’Avvocatura dello Stato, che invece ha messo al centro il diritto del nascituro alla bigenitorialità, come condizione posta dal legislatore anche per le adozioni. Che è una delle argomentazioni sostenute dall’avvocata intervenuta a nome del governo, per la quale non solo l’ultima parola spetta al Parlamento, ma la rimozione del divieto finirebbe per discriminare i soli uomini, i quali potrebbero ricorrere soltanto alla gestazione per altri, che ora è reato universale. Dunque le posizioni sono chiare: ora non resta che aspettare il verdetto.