I giudici del tribunale di Brescia, nelle 136 pagine di motivazioni, hanno spiegato perché Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, ex e attuale pm, sono stati condannati a 8 mesi per rifiuto di atti d’ufficio. Il caso ruota attorno al processo Eni-Nigeria sulla maxitangente da un miliardo di dollari legata al giacimento petrolifero Opl 245.

Secondo il tribunale, Vincenzo Armanna, ex dirigente Eni e grande accusatore, avrebbe chiesto la restituzione di una somma pagata al testimone nigeriano Timy Aya. Armanna si sarebbe lamentato quando Aya manifestò l'intenzione di non comparire in udienza, una circostanza emersa nelle chat analizzate durante le indagini.

I giudici di Brescia hanno sottolineato che i pm De Pasquale e Spadaro non hanno fornito alle difese di Eni alcune prove fondamentali. Tra queste, un video, chat, una nota Vodafone e documenti intitolati "Falsità Armanna 1, 2 e 3", raccolti da Paolo Storari nell’ambito dell’inchiesta parallela “falso complotto Eni”.

Storari aveva evidenziato una frase chiave, nascosta in una chat alterata da Armanna: “but then I need my money back” (“voglio indietro i miei soldi”). Questo elemento, secondo i giudici, avrebbe potuto cambiare gli equilibri del processo.

De Pasquale e Spadaro hanno sostenuto che Timy Aya fosse stato pagato 50mila dollari per recuperare un file della polizia nigeriana (EFCC). Tuttavia, le loro risposte sarebbero state giudicate insufficienti dai giudici, che hanno evidenziato un’omissione grave: la mancata trasmissione di prove decisive alle difese.

I magistrati bresciani hanno chiarito che non è rilevante se i testimoni siano stati pagati per mentire, ma piuttosto che le prove a disposizione non siano state condivise.