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«In parte manifestamente infondata e in parte irrilevante»: si può riassumere con questa frase la scelta delle giudici del processo “Angeli e Demoni” di rigettare la questione di legittimità sollevata dalla procura di Reggio Emilia sull’abolizione dell’abuso d’ufficio. Fallisce, dunque, il primo assalto ufficiale al ddl Nordio, che aveva portato, tra le altre cose, alla cancellazione dell’articolo 323 del codice penale. Con la conseguenza che sta per giungere a termine il processo all’ex sindaco di Bibbiano Andrea Carletti (difeso da Vittorio Manes e Giovanni Tarquini), mostrificato da politica e media e trasformato in “ladro di bambini” pur non avendo nulla a che fare con i capi d’imputazione che hanno dato vita al processo mediatico, mentre cadono complessivamente quattro capi d’imputazione.
Il pubblico ministero Valentina Salvi ha chiesto e ottenuto un termine fino a mercoledì per valutare se portare la questione davanti alla Corte di giustizia europea. Una richiesta alla quale Tarquini si è opposto, ribadendo la propria richiesta di dichiarare il «non doversi procedere» nei confronti di Carletti, in quanto «il fatto non è più previsto come reato». Ma l’articolata ordinanza di rigetto sottolinea in maniera dettagliata la manifesta infondatezza delle questioni sollevate dalla pm in merito alla presunta violazione degli articoli 3, 24 e 97 della Costituzione.
La Corte costituzionale, hanno ricordato le giudici, ha stabilito che non è possibile, per il giudice delle leggi, emettere sentenze che configurino nuove norme penali che peggiorano la posizione dell’imputato. Un principio sancito dall’articolo 25 della Costituzione, che riserva al legislatore il potere di definire quali fatti siano punibili e quali sanzioni debbano essere applicate. La Corte può intervenire se la norma penale è stata adottata in violazione delle norme che regolano la competenza degli organi legislativi; in caso di norme che concedono un trattamento più favorevole rispetto a quello generale, per evitare la creazione di “zone franche” sottratte al controllo di costituzionalità; nei casi in cui la riespansione di una norma generale comporti un effetto negativo per il reo e per garantire che lo Stato rispetti gli obblighi internazionali, anche se ciò comporta effetti sfavorevoli per l’imputato.
Nel caso in questione, però, le motivazioni addotte dalla pm risultano infondate: l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, infatti, non configura una “norma di favore” che sottragga a una normativa generale un sottoinsieme di condotte, ma esprime una scelta legislativa che rientra
nella discrezionalità del Parlamento. Ammettere il sindacato costituzionale su una norma abrogata equivarrebbe, si legge nell’ordinanza, a reintrodurre un reato che il legislatore ha scelto di eliminare, comportamento contrario al principio della riserva di legge.
Con riferimento all’articolo 117, in relazione alla presunta violazione della Convenzione Onu contro la corruzione (Convenzione di Merida), le giudici hanno invece un giudizio più cauto: la questione, affermano, è astrattamente ammissibile, poiché costituisce una delle eccezioni al divieto di sindacato in malam partem in materia penale. Tuttavia, appare manifestamente infondata e in parte irrilevante: la Convenzione Onu prevede infatti misure per prevenire e combattere la corruzione, ma non impone agli Stati un obbligo rigido di incriminazione per l’abuso d’ufficio, bensì suggerisce di «prendere in considerazione» l’adozione di leggi che incriminino tali condotte, lasciando un margine di discrezionalità legislativa ai singoli Stati.
L’abolizione dell’articolo 323 del codice penale, dunque, non viola la Convenzione di Merida. E per quanto riguarda il presunto contrasto con la Direttiva Ue 2017/1371 (direttiva Pif), che richiede agli Stati di sanzionare penalmente condotte che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, sebbene l’abrogazione dell’abuso d’ufficio abbia eliminato una norma rilevante per alcune condotte di distrazione di fondi, l’introduzione del nuovo reato di peculato per distrazione (articolo 314-bis) colma parzialmente questa lacuna. Tuttavia, il reato introdotto, secondo la Corte, copre solo condotte relative a denaro e beni mobili, lasciando fuori gli immobili, e ciò potrebbe creare una parziale violazione degli obblighi di incriminazione derivanti dalla Direttiva.
La questione rimane però irrilevante nel caso Bibbiano, dal momento che le condotte contestate agli imputati non risultano lesive degli interessi finanziari dell’Ue, come richiesto dalla direttiva stessa.
L’ordinanza, ha evidenziato al Dubbio il professor Manes, «è molto in sintonia con le argomentazioni prospettate dalle difese. È un’ordinanza straordinariamente approfondita - ha evidenziato -, di grande consapevolezza giuridica su problemi molto complessi e molto analitica nel distinguere tutti gli aspetti importanti». Uno dei passaggi centrali riguarda la riaffermazione «molto forte» della discrezionalità legislativa in materia penale, «che è un campo governato dalla riserva di legge, sostanzialmente rimarcando che le scelte legislative in materia penale, condivisibili o meno che siano, sono affidate alla responsabilità del legislatore. E non possono essere conculcate costruendo, spesso attraverso interpretazioni analogiche e in contrasto con la lettera della norma, pretesi, ma insussistenti, obblighi costituzionali di tutela interni o sovranazionali».
La richiesta di un termine per valutare di sollevare la questione davanti alla Corte di Giustizia, secondo Manes, rappresenta una sorta di tentativo di «reclamare i tempi supplementari» su una questione che «i giudici hanno già deciso», in maniera «molto coraggiosa, ribadendo la discrezionalità del legislatore in campo penale». In ogni caso, anche se le questioni di legittimità fossero state ricevibili, la decisione della Corte costituzionale, evidenzia l’ordinanza, non sarebbe stata applicabile al processo in corso. «Quello del collegio è stato un grande esempio di attenzione giuridica a un problema che non è solo quello della legittimità dell’abolizione dell’abuso d’ufficio - ha concluso Manes -, ma anche della scelta di riconoscere il giusto rispetto alla discrezionalità del legislatore, e in definitiva di stare dalla parte della democrazia parlamentare penale oppure no».
Nel corso delle scorse udienze era stato Oliviero Mazza, difensore, insieme a Rossella Ognibene, dell’ex responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza Federica Anghinolfi, a stroncare la richiesta della procura. «È una questione politica, niente di più», aveva evidenziato il legale. Che oggi esulta: «La Corte ha evidenziato in maniera chiara come certe scelte politiche siano insindacabili da parte della magistratura ed è un buon segnale per il nostro Paese - ha evidenziato -, perché l’abuso d’ufficio è stato il terreno d’elezione dello scontro tra politica e magistratura. Oggi la magistratura ha finalmente deciso di applicare la legge e sindacarla nei limiti della costituzionalità, ma non per le scelte di fondo, ed è comunque una buona notizia per la nostra democrazia».
Per quanto riguarda il possibile contrasto con la normativa europea, «le giudici hanno colto che la condizionalità europea è sul risultato, ma non sui mezzi. L’Unione europea chiede un risultato che è quello del law enforcement contro i reati contro la pubblica amministrazione, ma non ci dice quali sono gli strumenti esatti che noi dobbiamo utilizzare, perché quello verrebbe, ancora una volta, a limitare la sovranità degli Stati nella materia del diritto penale, che è un principio assoluto cardine dell’Unione. Quindi l’Unione può chiedere, imporre, diciamo, un’obbligazione di risultato, ma non di mezzi. Questo è il senso del vincolo europeo. I giudici hanno preso atto, finalmente, di una cornice di stretto diritto - ha concluso -. Tutte le ordinanze di rimessione che ho visto fino adesso sono mosse da un pregiudizio di natura politica. E voglio ricordare che a tutela della collettività c’è anche l’aggravante dell’abuso di potere, che è un’aggravante specifica dei reati comuni».