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Davigo Ardita Csm processo Palamara
Il backup non c’è, anzi sì. Al processo a carico di Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani Pulite condannato ad un anno e tre mesi (pena sospesa) per aver diffuso i verbali di Piero Amara sulla presunta Loggia Ungheria, non sono di certo mancati i colpi di scena. E gli ultimi sono arrivati nel giorno della sentenza, nel corso della discussione della difesa e della replica della parte civile, durante le quali l’attenzione è tornata sul cellulare di Davigo, non più disponibile perché “rivenduto” ad un centro di telefonia, causa «umidità». Il contenuto del cellulare, aveva detto l’ex pm in aula, non è più disponibile: l’ex consigliere del Csm non ha salvato i dati, comprese le chat. Con il rammarico della parte civile, che voleva dimostrare che Davigo conosceva le dichiarazioni di Amara ben prima di aprile 2020, data in cui il pm Paolo Storari gli avrebbe consegnato i verbali per autotutelarsi di fronte alla presunta inerzia della procura di Milano.
Ma a tirare fuori delle chat, il 20 giugno scorso, ci ha pensato proprio la stessa difesa di Davigo. «Abbiamo depositato della documentazione, delle chat, che dimostrano che ad un certo punto, quando sa qualche cosa, Davigo non parla più con Santoro», ha detto l’avvocato Francesco Borasi. Perché depositare quelle conversazioni? La questione è semplice: la difesa di Sebastiano Ardita, ex consigliere del Csm, parte civile nel processo (sarà risarcito con 20mila euro), aveva evidenziato che nonostante anche il nome dell’ex giudice del Consiglio di Stato Sergio Santoro fosse tra quelli indicati da Amara tra i componenti di “Ungheria” Davigo non ne avrebbe preso le distanze come fatto, invece, con lui. Anzi, aveva detto in aula l’avvocato Fabio Repici, l’ex pm avrebbe incontrato a cena Santoro almeno due volte, una a fine 2019 e una tra il 9 e il 10 settembre 2020, quando l’ex consigliere del Csm era in possesso da almeno cinque mesi dei verbali di Amara. Tale circostanza fu smentita da Davigo in aula, che retrodatò quelle cene, nelle quali si sarebbe discusso dell’innalzamento dell’età pensionabile dei magistrati alla presenza anche di un altro magistrato di Palazzo Spada, Giuseppe Severini, allora presidente della V Sezione del Consiglio di Stato, la stessa davanti alla quale Davigo aveva impugnato la sentenza del Tar che stabiliva il difetto di giurisdizione circa il ricorso relativo alla sua esclusione dal Csm.
Per smentire la versione della parte civile, la difesa di Davigo ha dunque depositato stralci di chat che testimonierebbero l’interruzione dei rapporti con Santoro ben prima della consegna dei verbali. Nulla di eccezionale, verrebbe da dire, se non fosse che lo stesso ex pm, intervenendo in aula a maggio scorso, aveva dichiarato di non aver fatto alcun backup delle chat, comprese quelle nelle quali si metteva d’accordo con Storari per un incontro. Davigo avrebbe conservato «solo le cose importanti», aveva detto, cose tra le quali, evidentemente, non rientravano i messaggi scambiati con chi gli aveva annunciato una nuova possibile catastrofe all’interno della magistratura, notizia che, a suo dire, lo aveva sconvolto.
Ma non è l’unica cosa che manca: oltre al cellulare non c’è più traccia né della chiavetta usb sulla quale erano contenuti i verbali né tantomeno dell’indirizzo mail dal quale Davigo si spedì gli atti per poterli stampare al Csm. Un fatto curioso, considerato che anche l’ex procuratore generale Giovanni Salvi e l’ex procuratore di Milano Francesco Greco hanno dichiarato di aver smarrito i telefoni. «Non c'è un modo per avere un documento che fissi la data» di consegna dei verbali, aveva fatto notare dunque Repici, secondo cui Davigo sarebbe venuto a conoscenza delle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno di Eni molto prima di aprile 2020. «C'è stato uno smarrimento di prove per sua legittima volontà», aveva dunque contestato. Un concetto che il legale ha ribadito anche il 20 giugno, giorno in cui poi è arrivata la condanna dell’ex pm. Davigo, ha detto Repici, «ha volontariamente disperso tutto ciò che poteva fissare una data. Noi abbiamo la prova che la cena con Santoro è stata il 9 o il 10 settembre - ha sottolineato -. Ma la cosa sconcertante è che siamo davanti a un imputato che ci ha detto di aver rivenduto il telefono, di non avere chat e mail, di non avere niente. Dopodiché», però, «produce brandelli minimi di una chat di WhatsApp con tale dottoressa Ciafrone e con tale dottor Santoro» per certificare di non aver avuto interlocuzioni con quest’ultimo dopo esser entrato in possesso dei verbali. «Ma scusi presidente - ha chiesto Repici -, si ricorda che l'ha chiesto lei all'imputato: “ma non l'ha fatto il backup?”. “No, solo delle cose importanti, Storari no”», aveva risposto. Invece «le hanno prodotte loro quelle chat di WhatsApp, le hanno prodotte nell'anno 2023», ha sottolineato Repici, che ha parlato di «menzogna» e di «spregiudicata impostura». La verità, ha aggiunto, «è che vi ha sottratto, come è diritto dell'imputato, com’è facoltà dell'imputato, dati di conoscenza. Se la procura della Repubblica, tanto astiosa, come è stata ritenuta dalla difesa, gli avesse sequestrato il cellulare, il problema sarebbe stato risolto in partenza».
E che la data corretta non sia aprile 2020 Repici lo deduce anche dall’interrogatorio di Davigo a Perugia del 19 ottobre 2020: alla richiesta del procuratore Raffaele Cantone sul perché Ardita fosse preoccupato, Davigo ha opposto il segreto d’ufficio, sostenendo che «la parte coperta da segreto d'ufficio su cui non posso rispondere è la ragione per cui non parlo più con il consigliere Ardita dal marzo 2020». E qual era il segreto? A rispondere è stato lo stesso Davigo: i verbali sulla Loggia Ungheria. Marzo 2020, dunque, non aprile. Mentre a tradire le intenzioni delle numerose comunicazioni fatte circa quei verbali è anche un’altra data, settembre 2020: è in quel momento che informa l’allora neo primo presidente della Cassazione Pietro Curzio. L’indagine si era però ormai sbloccata e quindi si era realizzato l’intento dichiarato da Davigo: non far arenare l’inchiesta su Ungheria. Ma «qual è la cosa che deve fare il presidente Curzio? - si è chiesto Repici - Prendere le distanze da Ardita. Le parole del dottor Davigo valgono - ha concluso -. È lui che confessa».