Giuseppe Pignatone si ritira. Lascia la presidenza del Tribunale dello Stato del Vaticano, dove Papa Francesco lo aveva portato nel 2019 per mettere ordine nei fondi della Santa Sede e nelle opacità di un sistema dove, da millenni, nulla è come sembra.

Classe ’49, siciliano di Caltanissetta, Giuseppe Pignatone è stato uno dei magistrati più potenti - e più discussi - degli ultimi anni. Sostituto procuratore a Palermo, poi procuratore di Reggio Calabria dal 2008 e infine il salto a Roma: la procura più grande, più intricata, più politicizzata d’Italia. Il famigerato “porto delle nebbie”.

Pignatone arrivò a Roma con una idea scolpita in mente: dimostrare la presenza della mafia anche nella capitale. Certo, una mafia diversa da quella della lupara, di Totò Riina e Matteo Massina Denaro. Una mafia disarmata ma corruttrice. Ed è così che nacque l’inchiesta Mafia Capitale, con l’illusione di portare lo schema della lotta alla ’ndrangheta e Cosa nostra sotto il “cupolone”.

L’inchiesta, annunciata a mezzo stampa qualche settimana prima, scoppiò ufficialmente nel 2014. Spuntò il nome di Massimo Carminati, l’ex terrorista nero presentato come il signore del “mondo di mezzo”; e quello di Salvatore Buzzi, il re delle cooperative romane. Era la nuova mafia, diceva Pignatone, quella che non ha bisogno di morti ammazzati per imporre la sua forza.

L’inchiesta travolse Roma, sbriciolò un pezzo di servizi sociali e fece saltare il banco della politica capitolina. Le parole “Mafia Capitale” fecero il giro del mondo e divennero una specie di sigillo tombale sulla “capitale infetta” di scalfariana memoria. Poi, finito il battage mediatico-giudiziario, l’inchiesta arrivò in tribunale. Insomma, finì davanti ai giudici. E i giudici dissero no: non è mafia. Corruzione sì. Malaffare, certo. Ma la mafia è tutt’altra cosa.

L’impianto accusatorio si sgonfiò clamorosamente ma i danni erano fatti: cooperative chiuse, servizi sociali azzerati, Roma ancora più in ginocchio. Quando nel 2019 Pignatone chiuse con Roma, fu Papa Francesco a offrirgli una poltrona. La presidenza del Tribunale Vaticano era un posto simbolico ma delicato: doveva rimettere in carreggiata i conti della Santa Sede, tra fondi immobiliari ballerini e processi imbarazzanti. Oggi sveste definitivamente la toga. E non si può dire che non abbia lasciato il segno.