Nel 2020, in pieno appiattimento dei mass media sulla pista nera dell’omicidio di Piersanti Mattarella, pubblicammo su Il Dubbio un’intervista all’ex Nar Valerio Fioravanti. La scelta suscitò polemiche e repliche da parte di alcuni magistrati. Ora, con la svolta delle indagini guidate dalla Procura di Palermo sotto Maurizio de Lucia, che ha individuato il boss mafioso Nino Madonia tra gli esecutori, ci si sarebbe aspettati la fine delle speculazioni e dell’azzardata teoria del “doppio Stato”. Ma così non è stato.

Partiamo dai fatti processualmente accertati. Il delitto dell’ex presidente della Regione siciliana, avvenuto 45 anni fa, il 6 gennaio 1980, è stato commissionato da Cosa nostra. Tuttavia, l’identificazione degli esecutori materiali è stata a lungo un nodo irrisolto: nessun collaboratore di giustizia ne conosceva l’identità. Successivamente, durante il processo che condannò i vertici della cupola mafiosa e assolse gli ex Nar, Gaspare Mutolo indicò Nino Madonia come uno degli esecutori. Ma ritorniamo alle indagini inziali.

La pista nera emerse inizialmente dalla testimonianza della moglie di Piersanti Mattarella, che notò una somiglianza tra il killer e Valerio Fioravanti, allora al centro delle indagini per la strage di Bologna. L'inchiesta su Fioravanti, e successivamente su Gilberto Cavallini, fu avviata in seguito alle accuse del fratello dello stesso Fioravanti, che lo incolpò del delitto. Tuttavia, si scoprì poi che il fratello era stato influenzato da Angelo Izzo, figura tristemente nota, che insieme a un certo Pellegritti fu indagato da Giovanni Falcone per calunnia. Izzo e Pellegritti avevano cercato di coinvolgere Giulio Andreotti nella vicenda.

Dopo un'indagine meticolosa, Falcone scrisse nella sua requisitoria che l'omicidio era stato compiuto da Cosa nostra senza alcun input da parte di organizzazioni come la P2, Gladio o gruppi di estremisti neri. La scelta di Totò Riina di utilizzare esecutori esterni all'organizzazione mafiosa fu legata, secondo lui, al mancato consenso unanime della Commissione mafiosa, che all'epoca era divisa a causa delle faide interne tra clan.

La convinzione di Falcone sul ricorso alla manodopera esterna si rafforzò a causa di Tommaso Buscetta che, nella prima fase della sua collaborazione, gli riferì che l'allora boss Stefano Bontate si era opposto alla decisione. Nelle dichiarazioni più recenti, quando Falcone non c'era già più, Buscetta ha invece riferito che Bontate era stato pienamente compartecipe della decisione omicida. Buscetta, al processo, dirà che non aveva voluto affrontare, in un momento ritenuto prematuro, il delicatissimo tema dei rapporti tra mafia e politica, poiché ammettere la partecipazione di Bontate alla decisione di due delitti di tale gravità avrebbe reso imprescindibile l'approfondimento, in sede di interrogatorio, del discorso sui rapporti tra Cosa nostra e l'onorevole Salvo Lima. Questo approfondimento si è sentito di poterlo affrontare solo dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio, quando ha riscontrato un maggiore e più deciso impegno di tutte le autorità dello Stato, nel loro complesso, sul fronte della lotta contro la mafia.

Corretto questo dettaglio, non cambia assolutamente ciò che aveva già elaborato Falcone sul delitto che definì 'politico- mafioso'. Piersanti Mattarella è stato una figura politica di grande rilievo, non solo a livello regionale. Per individuare le ragioni che hanno portato al suo assassinio, si è indagato nelle principali questioni e materie da lui affrontate. È emerso che la decisione di Cosa nostra di compiere un delitto di tale gravità difficilmente poteva essere ricondotta a un singolo atto amministrativo o politico, ma piuttosto a una valutazione criminale complessa e articolata.

Il contesto politico in cui operava Mattarella rivela il reale peso delle sue scelte e delle sue azioni, che potrebbero sembrare marginali se considerate isolatamente. Per la prima volta in Sicilia, un esponente di spicco della Democrazia Cristiana sfidava apertamente il sistema affaristico- mafioso radicato nel potere politico locale e regionale.

Proprio la Dc, che aveva mantenuto un controllo pressoché totale sulle amministrazioni comunali e regionali, aveva fino ad allora favorito il consolidamento di questi interessi. Questa complicità aveva permesso a Cosa nostra di esercitare un dominio assoluto sulle principali attività economiche dell'isola, in particolare nel settore degli appalti pubblici.

L'omicidio di Mattarella non era il primo: Cosa nostra aveva già eliminato altri politici democristiani, come Michele Reina, sempre per questioni legate agli appalti. La mafia non solo deviava le indagini verso il terrorismo, ma usava gli omicidi come messaggio alla politica per ribadire il suo predominio assoluto sulla gestione degli appalti.

L'azione di Mattarella risultava particolarmente pericolosa per Cosa nostra in quanto orientata a una reale politica di rinnovamento. Questo cambiamento era reso ancora più incisivo dai poteri di controllo che egli, in qualità di Presidente, esercitò per la prima volta nella storia della Regione, anche nei confronti del comune di Palermo. Il democristiano Vito Ciancimino, espressione di Cosa nostra, era stato messo all'angolo e temeva di perdere la gestione degli appalti. Lo stesso Mattarella aveva confidato all'allora ministro Rognoni di temere di essere ucciso proprio per questo.

Appare evidente, quindi, perché fosse necessario uccidere Piersanti Mattarella proprio il 6 gennaio 1980, quando era dimissionario e dunque politicamente più vulnerabile, poco prima che potesse rafforzare la sua posizione nell'imminente Congresso Dc. Anche in questo caso, Cosa nostra ha saputo agire preventivamente.