Il giudice delle leggi, con la sentenza n. 162/ 24, depositata in data 17 ottobre 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 2- ter, del Codice Antimafia, perché esso prevede che il giudice debba rivalutare la pericolosità sociale del proposto solo se sia stato detenuto per più di due anni. La conseguenza immediata è che ai Tribunali viene imposta la rivalutazione d’ufficio della persistenza della pericolosità dei soggetti cui la misura è stata applicata dopo la espiazione di pena detentiva, anche se di durata inferiore a due anni. Fino ad allora, la sorveglianza speciale «in precedenza disposta dovrà considerarsi ancora sospesa» e le «prescrizioni con essa imposta non potranno avere effetto» sino a che la rivalutazione non sia intervenuta.

Il fatto è però di interesse anche “sociologico”, perché la norma incostituzionale era stata introdotta nel 2017 proprio in seguito ad altra sentenza della Consulta, questa volta additiva (la n. 291/ 13). Allora, infatti, la Corte costituzionale aveva censurato l’articolo 15 del Codice, perché non prevedeva l’obbligo di rivalutare la pericolosità della persona raggiunta da misura di prevenzione personale, ove fosse stata medio tempore detenuto.

La ragione era (ed è) piuttosto evidente: se la pena assolve anche ad una funzione risocializzante, non può presumersi che un detenuto lasci il carcere nelle medesime condizioni antisociali nelle quali vi era entrato. Altrimenti, dovremmo ammettere che la pena ha solo natura afflittiva. Il Legislatore ha preso atto (?) di tale decisione e, quindi, ha introdotto l’obbligo di rivalutazione della pericolosità, al termine del periodo di detenzione, prima di dare corso alla esecuzione della misura di prevenzione. Ma siamo pur sempre nell’ambito della prevenzione, nel quale, ormai è chiaro a tutti, il Legislatore da anni sperimenta, sulla pelle dei cittadini, le nuove frontiere della sanzione senza condanna. Non si poteva allora resistere alla tentazione di introdurre una eccezione alla regola fissata dalla Corte costituzionale: se la pena espiata è stata inferiore a due anni, allora la misura di prevenzione inizierà a decorrere automaticamente al momento della scarcerazione.

La disposizione è, come spesso capita nella materia, asistematica ed irragionevole. Innanzitutto, rappresenta probabilmente il primo caso in assoluto in cui il Legislatore, per integrare una norma dichiarata incostituzionale, ne produce un’altra parimenti contraria alla Carta. Significa non essere in grado di leggere le motivazioni di una sentenza. Nella risalente pronuncia del 2013, infatti, la Corte aveva già segnalato che escludere la necessità di rivedere il giudizio di pericolosità a seguito della espiazione di una pena detentiva, se letta da un’altra prospettiva, significava introdurre una presunzione di perdurante pericolosità, irragionevole rispetto a quanto avviene per le misure di sicurezza, che invece richiedono un tale doppio accertamento. Oggi, a seguito degli interventi della Cedu, la Consulta rileva pure che una simile presunzione è contraria all’articolo 13 della Costituzione, dal momento che le misure di prevenzione personali, come tutte quelle che incidono sulle libertà fondamentali, presuppongono un accertamento dei propri presupposti espresso, caso per caso, da un giudice.

Il passaggio è assai rilevante, dal momento che la sentenza riafferma, dopo i precedenti del 2019, che lo statuto costituzionale delle misure di prevenzione passa attraverso le direttrici della esistenza di un’idonea base legale, della necessaria proporzionalità della misura rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati, della riserva di giurisdizione. Il presupposto della base legale va letto alla luce del principio di “sufficiente qualità della Legge”, elaborato dalla giurisprudenza convenzionale e costituzionale: non è sufficiente che la norma fissi i casi ed i modi dell’azione di prevenzione, ma occorre che lo faccia in modo comprensibile ed armonizzato.

Il criterio della proporzionalità, in particolare, continua a stridere irrimediabilmente con la natura definitiva della confisca di prevenzione, sulla cui vera natura si giocano importanti battaglie a Strasburgo. Quello della riserva di giurisdizione, infine, richiede un giudizio effettivo e privo di scorciatoie presuntive su presupposti di compressione delle libertà individuali.

Ma un altro profilo di irragionevolezza si annida nella norma censurata dalla Consulta, che la sentenza liquida con un passaggio motivazionale non esente da sarcasmo. Presumere che un soggetto resti pericoloso, anche dopo aver trascorso due anni in carcere, significa teorizzare che le pene detentive più brevi non abbiano funzione risocializzante e ciò contrasta con l’articolo 27 della Costituzione.

A questa riflessione vogliamo aggiungerne un’altra, che fissa ancor di più l’irragionevolezza della norma. Solitamente, alla minor durata della pena corrisponde una minor gravità del reato. Solitamente, ad una minor gravità del reato corrisponde una minore pericolosità sociale del condannato. Per ben sette anni, prima che la Corte costituzionale ne decretasse il giusto destino, l’articolo 14 comma 2- ter del Codice Antimafia ha ritenuto presuntivamente pericolosi i soggetti statisticamente meno pericolosi… e viceversa. E questo dice praticamente tutto.