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«Si possono dire molte cose sull’abuso d’ufficio. Ma di sicuro quel reato, così com’è tuttora descritto dal codice penale, costituisce il grimaldello grazie al quale la magistratura avoca a sé i poteri della politica». Ed evitare che il potere giudiziario perseveri nel fagocitare ciò che resta del potere politico è ancora una priorità, dice Gaetano Pecorella.
Certo, se l’avvocato che oltre ad aver presieduto l’Unione Camere penali ha guidato la commissione Giustizia della Camera si vede angherie, le subiscono proprio dai magistrati. A chi è perseguitato e poi riconosciuto innocente. Nessuno ha l’autorità morale per presentarsi come salvatore dei cittadini onesti.
Tra l’altro, la magistratura difende a spada tratta quelle misure antimafia applicabili anche a chi sia stato assolto. Nonostante su quest’assurdità l’Italia rischi ora una condanna dalla Cedu.
Lei si riferisce alle misure di prevenzione. Che rappresentano in modo fin troppo chiaro il portato di una cultura autoritaria. Non a caso nascono con Cesare Lombroso, che traeva dalle sembianze degli individui indizi sulla loro attitudine a commettere reati. All’inizio colpivano operai e contadini. I ricchi borghesi evidentemente sfuggivano, nel loro aspetto, alla prevenzione lombrosiana. Poi l’istituto è stato esteso e io stesso, come avvocato, mi sono trovato a difendere persone assolte in sede penale eppure confiscate di ogni bene. Era meglio se avessero inflitto loro una condanna: almeno in carcere avrebbero avuto di che mangiare e un letto per dormire.
Torniamo all’addio all’abuso d’ufficio.
Partirei proprio da un’analogia fra abuso d’ufficio e misure di prevenzione. Come le seconde si prestano all’arbitrio del giudice, così il primo è un’arma con cui la magistratura si ingerisce delle scelte di politici e tecnici sulla base di un vago sospetto. È così in virtù del fatto che la formulazione tuttora vigente dell’articolo 323 non rispetta il principio di tassatività.
E basta sopprimere il 323 per eliminare l’intrusione del potere giudiziario?
Evidentemente no. Il primo rimedio dovrebbe consistere in una riforma morale della politica, prima ancora che in modifiche normative. È fuori di discussione che troppo spesso comportamenti poco corretti diventino uno strumento formidabile nelle mani dei magistrati per esercitare una funzione di controllo sociale e un predominio sulla politica. L’ordine giudiziario ritiene di non essere semplicemente uno dei tre poteri dello Stato ma di sorreggere l’intero sistema. A volte circostanze anche solo contingenti favoriscono questo discutibile schema, com’è avvenuto col coinvolgimento mediatico di Salvini nel caso Anas. Altre volte, come con la sparatoria di Biella, la politica si autodelegittima in modo volontario.
Ma come se ne esce? Con la separazione delle carriere o con la capacità dei partiti di non brandire le indagini contro gli avversari?
Oltre alla riforma morale di cui ho detto, la vera via d’uscita è il ripristino dell’autorizzazione a procedere. Ne aveva parlato, prima di essere nominato ministro, lo stesso Nordio. Il vecchio articolo 68 altro non era che lo scudo in grado di garantire la separazione dei poteri. La democrazia è costruita sul presupposto che ciascuno dei tre poteri non sia attaccabile dagli altri.
Adesso sembra una chimera.
Ma se un potere è esposto all’arbitrio e all’intrusione degli altri, crolla l’equilibrio disegnato dai padri costituenti. E com’è noto, Calamandrei e De Gasperi non erano impenitenti farabutti, ma persone illuminate da una chiara idea di come dev’essere concepita la struttura dello Stato. L’autorizzazione a procedere non è una difesa dei politici: è la difesa del Parlamento. Basterebbe ricordare che un intero sistema politico, la prima Repubblica, è stato abbattuto dalla magistratura proprio grazie alla modifica dell’articolo 68.
Il punto è che, dopo trent’anni di inchieste e delegittimazioni giudiziarie della politica, gran parte dell’opinione pubblica insorgerebbe, di fronte a un ritorno al vecchio articolo 68.
E va ribadito che spesso la politica ha fatto l’impossibile per guadagnarsi questa sfiducia. Capisco che parte dell’opinione pubblica possa ritenere necessario che i magistrati facciano giustizia. Ma sarebbe vero che i magistrati fanno giustizia se in passato non ci fossimo trovati di fronte a vicende come quella di Berlusconi, perseguito solo dopo il proprio ingresso in politica per fatti in precedenza ritenuti non penalmente rilevanti, e poi condannato con una sentenza della Cassazione emessa pochi minuti prima che il reato andasse prescritto. Sull’immunità vorrei anche far notare una contraddizione evidente a occhio nudo.
Cioè?
Se tuttora l’autorizzazione della Camera d’appartenenza è necessaria per l’arresto, non si capisce perché non debba essere prevista per l’incriminazione, che arreca a chi la subisce danni comunque gravissimi.
Intanto ci si deve accontentare dell’addio all’abuso d’ufficio.
Va riconosciuto, come dicevo prima, che rappresenta lo strumento con cui la magistratura si sostituisce di fatto a politici e amministratori. Basti pensare ai tanti sindaci che sempre più spesso, prima di bandire una gara o firmare un qualsiasi atto, consultano i pm del luogo per sapere cosa devono fare per non essere incriminati.
Siamo alle barzellette.
Siamo alla prova certa che la magistratura ha utilizzato l’abuso d’ufficio per sostituirsi alla pubblica amministrazione. È chiaro il motivo per cui le toghe si oppongono così ferocemente all’abolizione del 323: non potrebbero più avocare a se stesse le prerogative della politica. D’altra parte è vera un’altra delle cose dette dal presidente Anm Santalucia, e cioè che tra i processi per abuso d’ufficio andrebbero consentiti quelli relativi ai conflitti di interesse: qui il reato è meno vago, rimanda a circostanze ben determinate. Sarebbe meglio non dare l’impressione di voler sdoganare qualsiasi condotta ora che c’è da gestire il Pnrr. Scrivere le leggi è cosa troppo seria perché la si possa lasciare al legislatore, dicono. Senza arrivare a tanto, meglio evitare svarioni.