È nullo l’accordo che prevede un compenso per l’avvocato basato sul risultato della controversia anziché sul valore presunto, stimabile già al momento dell’incarico. La Corte di Cassazione lo ha ribadito con la sentenza n. 23738 del 4 settembre 2024. Il caso riguardava una controversia di licenziamento. Il cliente e il suo avvocato avevano concordato un compenso pari al 15% delle somme ottenute in caso di vittoria. Il tribunale di primo grado aveva ritenuto l’accordo legittimo, basandosi sull’accettazione della percentuale da entrambe le parti. Tuttavia, la cliente ha impugnato la sentenza, sostenendo che l’accordo violava l’articolo 13, co 4, L. n. 247/ 2012, che vieta il “patto di quota lite”.

Nello specifico l’articolo 13 sancisce che il compenso di un avvocato non può dipendere dal risultato della lite. Il patto di quota lite, ossia un accordo in cui il compenso è legato direttamente al successo o al fallimento della causa, è vietato per proteggere l’indipendenza e l’imparzialità del professionista legale. La norma distingue tra compensi basati sul valore della causa, che sono permessi, e quelli legati all’esito, considerati contrari ai principi deontologici. Il divieto del patto di quota lite serve a proteggere sia il cliente sia la professione legale. Da un lato, impedisce che l’avvocato sviluppi un interesse economico nel risultato della causa, a scapito dell’obiettività.

Dall’altro, preserva la dignità della professione, evitando che diventi una scommessa sul processo. Il compenso legato al successo può distorcere il ruolo dell’avvocato, inducendolo a scelte influenzate dal potenziale guadagno, anziché dal dovere deontologico. La Cassazione ha accolto il ricorso della cliente, annullando l’accordo che legava il compenso al 15% delle somme ottenute, in quanto violava la legge.

Tuttavia, l’avvocato avrà comunque diritto a un compenso, che sarà ricalcolato secondo le tariffe professionali. Il tribunale dovrà ora determinare l’importo corretto.