L’assalto all’abrogazione dell’abuso d’ufficio parte da Reggio Emilia. Con la richiesta, depositata dalla pm Valentina Salvi nel processo sui presunti affidi illeciti “Angeli e Demoni”, di sollevare la questione di costituzionalità. Secondo il pubblico ministero, la nuova norma, che cancella l’articolo 323 del codice penale, sarebbe in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, che sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, con l’articolo 24, in quanto lascerebbe i cittadini privi di tutela di fronte alle condotte abusive dei pubblici ufficiali, e con l’articolo 117, secondo cui la potestà legislativa deve rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Il collegio, che sul punto dovrebbero pronunciarsi il 16 settembre, dovrà innanzitutto valutare la rilevanza della questione nel “processo Bibbiano”. Sono quattro le contestazioni di abuso d’ufficio in questo procedimento: qualora venisse pronunciata una sentenza di non luogo a procedere sparirebbero, dunque, i capi 17, 83, 85 e 94. La presenza di tali accuse, per la procura, rende, dunque, la questione dirimente. Una convinzione che, però, è stata fortemente messa in discussione dagli avvocati Giovanni Tarquini, difensore del sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, e Oliviero Mazza, difensore, insieme a Rossella Ognibene, dell’ex responsabile dei servizi sociali dell’Unione della val d’Enza Federica Anghinolfi.

Tarquini - il cui assistito è accusato solo di abuso d’ufficio - ha evidenziato che, indipendentemente dalle osservazioni in merito alla presunta illegittimità costituzionale della norma, la questione non avrebbe alcuna rilevanza, sulla base degli articoli 2, comma 2 del codice penale e 25, comma 2 della Costituzione. Il primo, infatti, in ragione della successione della legge penale nel tempo, stabilisce che se un fatto non è più previsto come reato, cessa l’esecuzione ed ogni effetto penale della condanna. Il secondo, invece, disciplina il principio di legalità delle pene il quale si articola nei principi di riserva di legge, tassatività, determinatezza ed irretroattività. Nessuno, dunque, può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Un eventuale accoglimento della questione da parte della Consulta, con reviviscenza della norma abrogata il 9 agosto scorso, secondo Tarquini non avrebbe dunque effetto nel processo in questione.

«La Corte costituzionale non potrà mai adottare una sentenza di accoglimento della questione di legittimità che finirebbe per applicare retroattivamente una norma più sfavorevole, determinata dalla stessa Corte costituzionale», ha evidenziato Mazza, che ha citato l’unico precedente, la sentenza numero 5 del 2014, che ha riportato in vita la fattispecie della “associazione paramilitare”. In quel caso, però, il dibattito non riguardava il merito della norma, ma il procedimento legislativo: l’abrogazione fu cancellata per eccesso di delega. Si trattava, dunque, di una norma radicalmente non valida. Nonostante ciò, la Corte di Cassazione, chiamata nel 2016 a pronunciarsi sul tema della reviviscenza, ha applicato proprio l’articolo 2 comma 2 del codice penale, “salvando” dunque gli effetti più favorevoli che nel frattempo erano scaturiti dall’abrogazione di quella norma. Il punto, secondo Mazza, è, dunque, la rilevanza della questione di legittimità nel processo sugli affidi, dal momento che un eventuale accoglimento della Consulta introdurrebbe una retroattività sfavorevole. Il che non sarebbe possibile per due questioni: in primo luogo, la Corte costituzionale non avrebbe questo potere, essendo la materia coperta da riserva assoluta di legge; inoltre, qualora anche accadesse, la sentenza non potrebbe avere gli effetti tipici retroattivi perché entrerebbe in contrasto con l’articolo 25 comma 2 della stessa Costituzione. Nel merito, ha aggiunto Mazza, non esisterebbe un vuoto di tutela, dal momento che quella penale sostanziale non è l’unica tutela possibile: la condotta del pubblico ufficiale può essere, infatti, sindacata anche in sede amministrativa, da una giurisdizione ad hoc. Da qui la richiesta, da parte degli avvocati, di inammissibilità dell’istanza, in quanto la questione sarebbe irrilevante nel procedimento, nonché manifestamente infondata, in quanto la norma che abroga l’abuso non è incostituzionale. I legali hanno poi chiesto l’assoluzione per i capi relativi all’abuso d’ufficio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

Rimane la discussione sulla violazione dell’articolo 117, di cui tanto si è dibattuto nei mesi precedenti. Un punto sul quale era stato lo stesso ministro della Giustizia Carlo Nordio a “rassicurare” tutti: a seguito di un Consiglio Ue dei 27 svoltosi a giugno scorso, infatti, il guardasigilli aveva chiarito che «la Presidenza ha accolto la nostra proposta di rendere facoltativo, e non più obbligatorio, il mantenimento di questo reato». Un via libera dall’Europa, dunque, «chiaro e definitivo». Anche perché, per evitare procedure d’infrazione da parte dell’Europa, il governo ha approvato un nuovo reato, introdotto con il dl Carceri prima dell’approvazione del ddl Nordio (che ha abrogato l’abuso d’ufficio), ovvero il peculato per distrazione, che così dovrebbe assolvere l’impegno preso dall’Italia con il recepimento della direttiva Merida.

Nel corso dell’udienza sono stati ascoltati due testi. In mattinata è stato sentito S. T., padre di uno dei minori coinvolti nel caso “Angeli e Demoni”. L’uomo era stato denunciato dall’ex moglie, alla quale il bambino aveva confidato di essere stato abusato dal padre. La denuncia (poi archiviata) fu presentata dalla donna a settembre 2013, tre anni prima che il piccolo entrasse in contatto con gli imputati del processo Bibbiano. Durante l’udienza si è appreso che l’uomo non ha mai ripreso i contatti con i figli, anche dopo il blitz di giugno 2019. L’uomo non ha mai recuperato la potestà genitoriale: pur avendo proposto reclamo contro la decadenza, né lui né il suo avvocato si sono mai presentati in udienza e il reclamo è stato dichiarato improcedibile. Ma non solo: l’uomo è stato sentito a sommarie informazioni non a Reggio Emilia, ma nella sua città di provenienza, dove i carabinieri si sono recati di fatto spiegandogli l’esistenza di un’inchiesta contro i servizi sociali che, a loro dire, avrebbero costruito false accuse contro di lui. L’uomo ha negato di aver mai abusato del figlio, ma anche di avere precedenti penali. Precedenti, però, dimostrati dalla difesa Anghinolfi, che ha prodotto la sentenza di condanna per per omesso versamento del mantenimento in favore dei figli nonché per minaccia aggravata nei confronti della ex moglie: l’uomo, infatti, aveva detto alla moglie che il  suo cognome era quello di famiglia ‘ndranghetista, rafforzando in tal modo la minaccia nei suoi confronti. A condannare l’uomo, curiosamente, era stata proprio Sarah Iusto, presidente del collegio del processo “Angeli e Demoni”.

Ascoltata anche Valentina Muraca, l’assistente sociale dedicata a due dei casi a processo, il cui controesame si concluderà lunedì prossimo. Il Tribunale ha respinto per quattro volte la richiesta che venisse ascoltata come persona indagabile e, dunque, assistita da un avvocato. Muraca non ha riferito di minacce o pressioni da parte dei servizi affinché scrivesse il falso, sottolineando, comunque, che Anghinolfi e Francesco Monopoli, uno degli assistenti sociali della Val d’Enza oggi a processo, erano molto attenti al fatto di far emergere gli elementi sintomatici dell’abuso e del maltrattamento. Muraca, stando al suo racconto, avrebbe dunque seguito quella linea, in maniera opportunistica, ovvero per ingraziarsi i responsabili del servizio in un’ottica di carriera. Ma non sarebbe mai stata minacciata o obbligata a scrivere il falso.